Nel 1933 Horkheimer, insieme agli altri esponenti della Scuola di Francoforte, fu costretto a lasciare la Germania, dapprima per la Svizzera e poi per gli Stati Uniti. Fu proprio negli Stati Uniti, dove rimase fino al 1950, che Horkheimer sviluppa, insieme soprattutto ad Adorno, con il quale pubblicherà nel 1947 “Dialettica dell’illuminismo”, i principali aspetti del suo pensiero. Sempre del 1947 è, infatti, “L’eclissi delle ragione. Critica della ragione sperimentale”.
L’importanza del suo pensiero risulta evidente dalla lucida analisi della società capitalista che si andava strutturando, secondo una forma che oggi potremmo definire neoliberista, in quel periodo a cavallo tra l’inizio della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della Guerra Fredda.
Se da un lato, infatti, il mondo, agli albori della Seconda Guerra Mondiale, sembrava diviso tra fascismi e comunismi, dall’altro la struttura sociale che si andava formando era, appunto, quella neoliberista. Nel 1938, infatti, a Parigi Louis Rougier organizzò un “colloquio” dedicato alle idee di Walter Lippman, giornalista statunitense: punto chiave dell’incontro era la ridiscussione del ruolo dello Stato, e quindi della politica, nell’economia.
Questo dibattito nacque, secondo le intenzione dei partecipanti – tra cui Friedrich von Hayek, Michael Polany e Wilhelm Roepke – come reazione all’eccessivo potere che lo Stato andava assumendo nell’economia, non solo negli Stati totalitari, ma anche negli Stati Uniti per le politiche “socialiste” e keynesiane di Roosevelt.
In realtà, il colloquio era il tentativo di ridiscutere quel liberalismo economico che aveva portato al collasso dell’economia americana nel 1929 e che le politiche di Roosevelt stavano cercando di correggere.
Questo, dunque, era il campo in cui Horkeimer si trovò ad operare ed a lui, come agli altri esponenti della Scuola francofortese, va il grande merito di aver nitidamente compreso che “il fascismo è la verità della società moderna” e che “chi non vuol parlare del capitalismo deve tacere anche sul fascismo”.
In sostanza, Horkheimer, aveva intravisto nel capitalismo, in particolare in quella nuova concezione che si andava definendo come “neoliberista”, le stesse “tendenze al potere sociale” che caratterizzavano i fascismi.
Infatti, decisiva fu la constatazione che, così come gli Stati totalitari fondavano la loro politica economica sull’accentramento burocratico, allo stesso modo gli Stati capitalisti miravano, piuttosto che ad una reale ed equa libertà di mercato, ad una società monopolistica ed, in pari modo, centralizzata.
Infatti, Stiglitz (Il prezzo della disuguaglianza. Capitolo secondo: le rendite di monopolio) sostiene, oggi, nel 2014 – dopo aver vissuto i disastri sociali di queste politiche neoliberiste – che è proprio la creazione di monopoli, concessi e garantiti dal governo, a costituire la base per una società diseguale. L’economista premio Nobel sottolinea, fatto per noi importante, come – dopo la crisi del ’29 – il Presidente Roosevelt andava operando una lacerazione di questi poteri monopolisti e la creazione di uno stato sociale anche in America.
A questo piano i grandi capitalisti, poggiandosi su presupposti filosofico-economici – quali le interpretazioni malthusiane e darwiniste di Spencer (“una creatura, priva dell’energia necessaria per conservare se stessa, deve morire”) e quelle più strettamente economiche di Milton Friedman – dovevano necessariamente opporsi: e così lo fecero nel mondo più incisivo possibile, ossia con la creazione di quella cultura industriale che ha dominato, dal dopoguerra, la psiche stessa degli individui.
In sostanza, Horkheimer considerava la società capitalista monopolista, ossia neoliberista, un’altra forma di fascismo. Oggi che questa società ha manifestato tutte le sue criticità, uno studioso del neoliberismo come Giovanni Leghissa può affermare che “nella condizione neoliberale che stiamo vivendo, si attua un legame indissolubile tra l’innesto della razionalità economica nel terreno da cui scaturisce il vivente e la sparizione del conflitto politico, per far posto a un ordine, definito “economico”, che si offre come naturale e quindi come non negoziabile”.
Questa non negoziabilità costituisce il principale aspetto totalitario del sistema capitalistico: e questa non negoziabilità costituisce la razionalità del mondo moderno.
È questa razionalità irrazionale che si è sviluppata negli ultimi 70 anni e che forma la struttura sociale del nostro mondo occidentale, ad apparire in crisi, già nel 1947, ad Horkheimer.
Così nel suo “Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale”, Horkheimer cerca di capire le fondamenta di questo nuovo ordine mondiale che è tanto più irrazionale quanto più risulta incapace di assicurare la libertà all’uomo (l’“idea dell’uomo”) nonostante gli straordinari processi tecnologici.
Secondo Horkheimer, dunque, “la ragione è ormai completamente aggiogata al processo sociale; unico criterio è diventato il suo valore strumentale, la sua funzionalità di mezzo per dominare gli uomini e la natura”. Non è un caso che due filosofi foucaultiani, quali Dardot e Laval, abbiano intitolato il loro recente saggio “La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista”: già il titolo rimanda ad un processo, quasi bioritmico, di eclissi della ragione, intesa come autonomia intellettuale dell’uomo, e di alba di una “nuova ragione”, neoliberista, che impera sul mondo odierno, escludendo dal novero delle possibilità reali, ogni cosa che elida la razionalità vigente, in quanto essa sola è razionale: secondo Horkheimer, infatti, “il pensiero che non serve agli interessi di un gruppo costituito o agli scopi della produzione industriale è considerato inutile e superfluo” e “la decadenza del pensiero favorisce l’obbedienza ai poteri costituiti”.
È questa chiusura dell’universo del discorso a caratterizzare la ragione neoliberista e con essa il mondo odierno: l’unica possibilità che resta all’uomo comune è la “denuncia di ciò che viene comunemente chiamata ragione”.
In conclusione, i possibili atteggiamenti dell’uomo di fronte alla “nuova ragione del mondo” sono due: la rassegnazione all’identità di ragione e dominio (con la conseguente repressione degli impulsi naturali) o la rivolta, che è innanzitutto critica del mondo…
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