La verità sulla crisi e la partita decisiva per il futuro di Raffaele Vanacore

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Una sincera riflessione sulle cause e sulle conseguenze della crisi economica, istituzionale e sociale che ci impegna da anni, impone la ricerca della verità.
Nonostante i mass-media più efficaci suggeriscano, ed anzi impongano psicologicamente ai cittadini altrimenti poco informati, che la disoccupazione, l’occupazione sottopagata, la fine di alcuni diritti (sanità, istruzione, trasporti pubblici, etc.) siano le conseguenze di una crisi economica (“non ci sono soldi”..), un profondo studio dello sviluppo, e dell’ideologia, della nostra società industriale, concettualmente basata ed istituzionalmente costituita su fondamenta neoliberiste, rivela una verità diversa.
La disoccupazione, la precarietà indefinita, il lavoro sottopagato, la deflazione, la stagnazione, sono i risultati che la società neoliberista emersa dalla seconda guerra mondiale si proponeva. L’unico modo per attuare definitivamente queste “riforme” era la creazione di uno stato di crisi: lo stato di crisi, in altre parole, non è altro che l’unico mezzo con cui queste riforme, che possono dunque considerarsi i motivi per i quali la crisi è stata scatenata (e non le sue conseguenze!), potevano essere imposte alla politica ed ai cittadini.
Il nostro futuro, dunque, sarà caratterizzato da uno scontro ideologico, ossia culturale e socio-economico, tra questa teoria, attualmente imperante, neoliberista, che ci ha imposto la crisi come modalità di governo e la disuguaglianza come forma sociale, ed una teoria “comunitaria”, che prevede la democrazia come forma di governo e l’eguaglianza come forma sociale. Questa seconda teoria trova le sue basi economiche nelle opere di Stglitz, Krugman e Piketty – per fare degli esempi – e le sue manifestazioni politiche nei fenomeni degli Indignados, del “99%”, di Occupy Wall Street.
Noi da che parte stiamo?
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La vera questione Genny ‘a carogn

Il ruolo decisivo giocato da Genny ‘a carogn nel decidere lo svolgimento della finale di Coppa Italia dimostra, semplicemente, che lo Stato italiano ha smesso di esistere.
Il problema non è tanto che un capo ultras decide dello svolgimento di una partita, ma piuttosto che milioni di persone assistono alle facce inebetite, per non dire ebeti, dei Presidenti di Consiglio e Senato.
Non hanno più alcun ruolo: è ormai chiaro a tutti come siano delle marionette, seppur brave in TV, alla mercé di interessi ben lontani da quelli della popolazione.
È per questo, per l’assenza di uno Stato, che migliaia di persone, in particolare al Sud, si sentono più rappresentate da capi ultras come Genny ‘a carogn piuttosto che da attori che interpretano il ruolo di Presidenti del Consiglio.
Piuttosto che credere alle false verità quotidianamente propinate da mass-media compiacenti, e non trovandosi in linea con l’immagine della realtà da loro offerta, migliaia di persone assumono, come loro leader, i più facinorosi dei capi ultras. E così avviene in ogni aspetto della quotidianità, così che il diritto risulta ben lungi dall’essere una caratteristica dell’Italia.
I fatti della finale di Coppa Italia non sono altro che un tassello del mosaico di contro-sviluppo che sta attraversando l’Italia: non ci rendiamo conto che fanno parte di un unico quadro, infatti, i cui altri tasselli sono costituiti, ad esempio, dal caso Shalabayeva e dal caso dei due marò, ma anche ultimo dal caso Dell’Utri.
Lo Stato italiano non ha la forza di contrastare un capo ultras, figuriamoci se può fare qualcosa contro il referente politico della mafia o contro potenze come India o Azerbaijan.
In conclusione, il caso Genny ‘a carogn dovrebbe indurre chiedersi questo: ha ancora senso lo Stato italiano?

 
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Avere o essere? Risposta all’articolo di Vittorio Cugnin

Caro cugino, hai colto assolutamente in pieno il senso di questo blog ed il tuo contributo, nonostante la tua giovane età, è sicuramente tra i più lucidi ed i più maturi. Vorrei, come premessa, segnalare a te – ed a quanti altri non ne siano ancora al corrente – il “Manifesto per la salute” del Lancet: anch’esso dà grande importanza ai danni che un eccesso di consumo (un iperconsumo..) arreca quotidianamente alla biosfera ed alla salute del mondo intero.
Detto questo, nell’analisi del tuo saggio, viene ad assumere notevole rilevanza la distinzione tra essere ed avere: hai colto benissimo il loro significato nel mondo odierno, sulla scia dell’ormai classico “Avere o essere?” del grande Erich Fromm (peraltro anche lui tra i fondatori della Scuola di Francoforte), secondo il quale essi sono “due fondamentali modalità di esistenza, due diverse maniere di atteggiarsi nei propri confronti ed in quelli del mondo, due diversi tipi di struttura caratteriale”.
Tuttavia, non essendo questo il luogo per un’analisi del saggio frommiano, vorrei limitarmi solo ad alcuni interrogativi: perché, ad esempio, diverse persone scelgono la modalità dell’avere?
La risposta non è facile e probabilmente è da riportarsi, come sottolineato in altri articoli, al fatto che è la società stessa ad imporsi come substrato psichico di individui non liberi.
Di conseguenza, un altro interrogativo di grande rilevanza risulta questo: perché la società si organizza in maniera tale da imporre psicologicamente l’iperconsumo, ossia la modalità dell’avere?
Fu la stessa Scuola di Francoforte, ormai 80 anni fa, a dare la più razionale risposta a questo interrogativo: il fatto che l’individuo fosse in procinto di liberarsi dai bisogni materiali, e quindi dal dominio, impose la creazione di un nuovo sistema di dominio, basato non più solo sui bisogni primari, ma anche – come giustamente hai ricordato – sui bisogni secondari.
È la ricerca di questi bisogni secondari a mantenere l’individuo sotto il giogo del dominio.
È lo stesso Bauman, che anche tu hai giustamente citato, nel suo capitale “L’etica in un mondo di consumatori” a sottolineare come “il segreto di qualsiasi società di successo è fare in modo che gli individui desiderino di fare quello che il sistema necessita che essi facciano per potersi riprodurre”.
In conclusione, posta la situazione in questo senso, come tu rilevi, “in medio stat virtus”: nessuno vuole proporre un anacronistico ritorno ad un mondo pretecnologico, ma occorre sviluppare metodi armonici tra l’uomo e la natura ed il ricercarli è proprio uno dei fini di questo blog.

PS un mondo iperconsumistico risulta ancor più assurdo se si pena che 25.000 persone al giorno muoiono di fame e che quasi un miliardo di persone al mondo soffre di fame.

 
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Fra consumi equilibrati ed equilibrio nel consumo di Vittorio Cugnin

“L’uomo si occupa troppo di ciò che ha, e, troppo poco di ciò che è…”.
Tali parole furono pronunciate, a dir di Platone, da Socrate nella parte finale della Apologia, ovvero l’ultimo discorso prima che il filosofo venisse allontanato dal Tribunale. Socrate, libero pensatore per eccellenza, riteneva, infatti, che l’uomo non dovesse preoccuparsi in prevalenza del suo corpo, di ciò che possedeva e, del suo potere, ma soprattutto, della sua anima. Platone gli fa dire espressamente che ciò che nella sua vita ha cercato di fare è convincere tutti coloro con cui parlava ad impegnarsi nel rendere l’anima la migliore possibile sostenendo che “ la virtù non nasce dalle ricchezze, ma che dalla virtù nascono tutte le ricchezze e tutti i beni degli uomini…”.
L’ attuale epoca ripropone, in termini amplificati, l’antico dilemma dell’avere o dell’essere ed invero ,oggi, si è soliti rapportarsi al mondo circostante non tanto, come sosteneva Socrate, per ciò che si è , bensì per ciò che si ha. L’avere, in termini di acquisti e, dunque, di possedere qualcosa, o addirittura, qualunque cosa di nuovo, è strettamente connesso all’apparire; difatti in una realtà sempre più priva di valori forti, di ideologie e tendenzialmente volta al pedissequo ossequio delle mode del momento, una persona è in quanto ha in tasca il più nuovo I-Phone, indossa il giubbotto di tale logo o, con disinvoltura, esibisce occhiali “all’ultimo grido” che di pratico e di essenziale non hanno alcunché.
L’imperativo di oggi è, dunque, consumare ed, oramai, il consumo fine a se stesso appare ,nella piramide economica dei bisogni, al primo posto e sembra superata la distinzione fra bisogni primari e secondari o fra bisogni dei giovani e degli adulti: i ventenni sperimentano ed i loro genitori, eterni giovani, scelgono.
Proprio questa febbre del lusso e la tendenza all’iper-consumo, ovvero ad acquistare più di quanto sia necessario, è diventata una patologia come ha denunciato l’economista Robert Frank.
Secondo la sua tesi il consumo è una necessità, una forma imprescindibile per la realizzazione individuale. Simboleggia una rincorsa verso il materialismo, una competizione fra esseri umani, il cui vincitore sarà colui che per pochi attimi si sentirà più consumatore degli altri ed avrà eccelso nel suo “particolare”, riprendendo Guicciardini.
Non sembra esista un rimedio al desiderio “ compulsivo” di consumo che finisce per danneggiare più che sostenere l’economia nazionale ed internazionale. Esempio sono i progetti di “austerity” o i programmi di salvaguardia delle risorse contro i continui sprechi quali la estenuante ricerca di un modello di sviluppo economico sostenibile che coniughi gli aspetti economici con quelli sociali ed ambientali.
L’economista Solow in uno dei suoi saggi, con riferimento all’eccessivo consumismo, sottolinea appunto la necessità che ogni generazione dovrebbe lasciare alla successiva tutto ciò che può servire ad avere una qualità della vita almeno pari alla propria. Eppure le famiglie medie continuano a consumare, nonostante la crisi, optando per l’acquisto di un nuovi I-Pad, dopo aver risparmiato con difficoltà, anziché pagare, con gli stessi risparmi, più velocemente il mutuo sulla casa.
Questi comportamenti appaiono eticamente “spregiudicati” e rispecchiano quella mancanza di moderazione, di temperanza o meglio ancora della latina frugalitas .Ad essa ,anche, Epicuro sembra avvicinarsi quando afferma che per raggiungere l’” atarassia”- la felicità greca- occorreva disporsi con moderazione nei confronti della vita. Proprio l’agire secondo tale virtù, come evidenziato da Bauman, viene considerato “difettoso” dal sistema consumistico: “ difettosi” sono coloro i quali si limitano ad acquistare ciò di cui hanno bisogno e non superano la linea oltre la quale vi è il fantasma dello spreco, della attitudine a comprare senza equilibrio, del consumismo.
Da ciò consegue, nell’animo di questi uomini, un sentimento di timore poiché, nel tempo, si presenta in essi la paura della esclusione sociale o dell’ostracismo. La loro diversità è, però, positiva in quanto essi vivono secondo i canoni dell’essere e non dell’apparire e, dunque, simboleggiano una morale idillica ed ideale nonché la liberazione dalla “ pressione” di essere qualcun altro. Il consumismo, nella sua estremizzazione attuale di iperconsumismo, ha abbandonato le antiche vesti del boom economico degli anni “ 50 e “ 60 che gli diedero il merito di trainare lo sviluppo economico di quegli anni, per indossare abiti che non lo qualificano più come tale. Ed invero, al di là dei suoi influssi negativi sull’etica comportamentale, il suo spazio d’azione, come accennato in precedenza, colpisce anche zone e luoghi in cui vive l’umanità. Le grandi metropoli con le loro strade tappezzate di pubblicità ,lo smog in cui sono immerse, l’inquinamento acustico ed elettromagnetico che le sovrasta così come l’emergenza rifiuti rappresentano l’altro lato oscuro dell’iperconsumismo. Negli ultimi anni gli stili di vita e di consumo hanno subito un cambiamento tale da incidere fortemente anche sull’equilibrio della biosfera: l’aumento vertiginoso delle merci e dei consumi ha avuto come ulteriore conseguenza un corrispondente aumento dei rifiuti ,anche tecnologici, al punto che una delle ulteriori questioni urgenti è quella del loro smaltimento. Consumare è, dunque, una necessità di tutti e tutti acquistano per realizzare se stessi. Il pericolo del cammino tracciato fin qui è evidente: il dio consumo ed il dio denaro giustificano comportamenti irresponsabili che hanno causato e tuttora causano conseguenze talvolta anche di portata mondiale. Basta ricordare la crisi economica del 2008: ancora oggi gli Stati subiscono le conseguenze negative di una recessione causata dalla concessione di crediti al consumo senza adeguate garanzie. Il consumo sfrenato è pericoloso per i cittadini, per lo Stato, per il mondo ovvero per quello stesso “ villaggio globale” che secondo Mc Luhan avrebbe reso tutto alla portata di tutti ma che, in un certo qual modo, oggi, paga le conseguenze di una mancanza di regole. E’ necessario rimodulare i consumi, dare un senso alla spesa quotidiana ed un significato al denaro che consente quell’acquisto ,è opportuno riprendersi la propria vita ed ispirarla a quei valori che sono gli unici ad avere il potere di arricchirla ,così come sosteneva Socrate. Anche l’economia potrebbe averne un ritorno positivo : è vero che la domanda di beni stimola la produzione e genera a sua volta nuova domanda ed ancora nuova produzione e così via ,ma ,è dimostrato che la spinta eccessiva ai consumi può produrre disastri come l’attuale recessione. Mai come adesso, dunque, bisogna ricorrere a ciò che sostenevano gli antichi Romani “ in medio stat virtus”: non è necessario azzerare i consumi ma è opportuno ricalibrarli e soprattutto non annullare la sostanza umana nell’atto del consumo rendendo legittima la pretesa di una migliore qualità della vita e senza infliggere ferite profonde all’ecosistema.

Vittorio Cugnin

Manifesto per la salute

http://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(14)60409-8/fulltext

Ecco il Manifesto del Lancet Journal

“Questo manifesto per trasformare la salute pubblica richiede un movimento sociale per sostenere l’azione collettiva della sanità pubblica a tutti i livelli della società: personale, comunitaria, nazionale, regionale, globale e planetaria. Il nostro obiettivo è di rispondere alle minacce che abbiamo di fronte: minacce per la salute e il benessere umani, minacce alla sostenibilità della nostra civiltà e minacce ai sistemi naturali e artificiali che ci sostengono. La nostra visione è quella di un pianeta che nutre e sostiene la diversità della vita con la quale co-esistiamo e dalla quale dipendiamo. Il nostro obiettivo è quello di creare un movimento per la salute del pianeta.

La nota audience comprende operatori sanitari e professionisti della sanità pubblica, politici e policy makers, funzionari civili internazionali che lavorano per l’Onu e nelle agenzie per lo sviluppo e gli accademici che lavorano per conto delle comunità. Soprattutto, la nostra audience include ogni persona che abbia interesse per la propria salute, la salute degli esseri umani e la salute delle generazioni future.

La disciplina della salute pubblica è fondamentale per questa visione per i suoi valori di giustizia sociale e di equità per tutti e per la sua attenzione sulle azioni collettive dei popoli interdipendenti e responsabili e delle loro comunità. I nostri obiettivi sono quelli di tutelare e promuovere la salute e il benessere, per prevenire le malattie e la disabilità, per eliminare le condizioni che danneggiano la salute e il benessere e per favorire la resilienza e l’adattamento. Nel raggiungimento di tali obiettivi, le nostre azioni devono rispondere alla fragilità del nostro pianeta e al nostro obbligo di salvaguardare gli ambienti fisici e umani all’interno dei quali esistiamo.

La salute planetaria è un atteggiamento verso la vita e una filosofia per vivere. Enfatizza le persone, non le malattie, e l’equità, non la creazione di società ingiuste. Cerchiamo di minimizzare le differenze di salute secondo la ricchezza, l’istruzione, il sesso ed il luogo. Sosteniamo la conoscenza come una fonte di trasformazione sociale e il diritto di realizzare, progressivamente, i più alti livelli raggiungibili di salute e benessere.

I nostri modelli di sovra-consumo sono insostenibili e finiranno per causare il collasso della nostra civiltà. I danni che continuiamo ad infliggere ai nostri sistemi planetari sono una minaccia per la nostra stessa esistenza come specie. I guadagni realizzati in salute e benessere nel corso degli ultimi secoli, anche attraverso le azioni della sanità pubblica, non sono irreversibili; possono andare facilmente persi, una lezione che non siamo riusciti a imparare dalle civiltà precedenti. Abbiamo creato un sistema economico mondiale ingiusto che favorisce una piccola elite benestante sui molti che hanno poco.

L’idea del progresso incontrastato è una pericolosa illusione umana: il successo porta nuove e potenzialmente anche più pericolose minacce. La nostra tolleranza per il neoliberismo e le forze transnazionali che si dedicano a soddisfare bisogni estremamente lontani da quelli della stragrande maggioranza delle persone, e specialmente di quelle più deprivate e vulnerabili, sta solo approfondendo la crisi che abbiamo davanti. Viviamo in un mondo nel quale la fiducia tra noi, le nostre istituzioni ed i nostri leader, sta precipitando a livelli incompatibili con società pacifiche e giuste, contribuendo così a una diffusa disillusione per la democrazia e il processo politico.

E’ necessaria un’urgente trasformazione nei nostri valori e le nostre pratiche, basata sul riconoscimento della nostra interdipendenza e sull’interconnessione dei rischi che abbiamo di fronte. Abbiamo bisogno di una nuova visione, di un’azione cooperativa e democratica a tutti i livelli della società e di un nuovo principio di planetismo e benessere per ogni persona su questa Terra: un principio che affermi che dobbiamo conservare, sostenere, e rendere resilienti i sistemi planetari e umani dai quali dipende la salute, dando priorità al benessere di tutti. Troppo spesso i governi prendono impegni, ma non riescono ad agire per essi; un’accountability indipendente è essenziale per garantire il monitoraggio e il controllo di questi impegni, insieme ad un’ appropriata azione correttiva.

La voce della salute e della medicina pubblica come coscienza indipendente della salute del pianeta ha un ruolo particolare da svolgere nel raggiungimento di questa visione. Insieme alle comunità rafforzate, siamo in grado di confrontarci con gli interessi radicati e le forze che mettono a rischio il nostro futuro. Un potente movimento sociale basato su un’azione collettiva ad ogni livello della società darà la salute al pianeta e, allo stesso tempo, supporterà lo sviluppo umano sostenibile.

Clicca QUI per firmare il manifesto

– See more at: http://www.greenreport.it/news/per-salute-pubblica-planetaria-manifesto-lancet-video/#sthash.ISuZ5qgt.dpuf

Manifesto politico di Raffaele Vanacore

MANIFESTO POLITICO

Riprongo anche qui un mio pensiero di un po’ di temo fa

 

Le radici del contesto attuale
Questi anni, particolarmente densi di avvenimenti economici, politici e sociali, hanno portato grandi spunti di riflessione sul ruolo dell’Italia, dell’Europa e del mondo stesso.
In particolare, qual è il fine ultimo al quale il mondo in toto deve aspirare?
Le guerre e le barbarie degli ultimi 20 anni (Somalia, Bosnia, Kosovo, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria) ci hanno ricordato che il fine ultimo di un essere umano è il MANTENIMENTO DELLA PACE.
Ora, bisogna considerare che quest’obiettivo era stato posto come fondamenta di un nuovo ordine politico dopo le immani distruzioni della Seconda Guerra Mondiale. In poche parole, gli stati europei avevano finalmente capito che la pace è assolutamente migliore della guerra. Pertanto, gli stati europei, in particolare quelli mitteleuropei (Germania, Austria, Olanda ecc.), si sono avviati verso un modello sociale fondato sul benessere individuale e sociale, raggiungendo incomparabili livelli di qualità della vita.
Probabilmente, alla base di questo nuovo modello di vita, vi era un programma filosofico di fondo, che poggiava su di un individualismo di fatto. Individualismo che era straordinariamente emerso prima, durante e dopo la Prima Guerra Mondiale, ad esempio con l’espressionismo e l’ emergenza dell’arte contemporanea.
Lo shock della Seconda Guerra Mondiale, anticipata da una profondissima crisi economica, ha definitivamente sancito la necessità di un mondo basato su di un individualismo filosofico-esistenziale e su di un sistema di benessere sociale, volto ad assicurare la miglior qualità di vita possibile all’individuo. Alla base di questo programma filosofico-politico vi era, per dirla con Kant, la PACE PERPETUA.
Troppo utopistico, a quel tempo, mantenere una pace perpetua globale, gli stati europei si sono prefissati il mantenimento di una pace perpetua regionale.
In summa, l’Europa è stata il primo soggetto economico-politico a nascere con l’obiettivo di una pace perpetua.
Dunque, considerando che è naturale il tentativo di egemonia da parte di un soggetto politico più forte su quelli più deboli, si ribadisce l’importanza dello spostamento, avvenuto in Europa e in Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma anche in Cina dopo numerose guerre territoriali, da un tentativo di egemonia bellica ad una nuova forma di egemonia, basata sulla potenza economica e sugli scambi intercontinentali. Non è un caso, inoltre, che gli stati citati siano stati estranei, come protagonisti principali, della guerra fredda.
Pertanto, l’Europa dovrebbe porsi alla guida di un nuovo ordine mondiale basato sulla pace.

La nascita dell’UE
Tuttavia, quando, dopo anni di feconde relazioni economiche, gli stati europei hanno deciso di passare ad una più profonda relazione politica (sancendo una volta per tutte il raggiungimento dell’unione economica con l’adozione dell’euro) si sono scontrati con la cruda realtà politica globale: gli stati europei non erano altro che pedine statunitensi nello scacchiere globale.
Un’unione politica, basata sull’indipendenza dell’UE dal sistema bipolare della guerra fredda ed, in seguito, dal sistema unipolare post-guerra fredda, era, infatti, estremamente nocivo agli interessi geopolitici, economici e bellici degli Stati Uniti.
Pertanto, vista l’impossibilità di una guerra “classica” contro questi stati europei, si è, per la prima volta, introdotto un sistema bellico basato sull’economia: postulato di fondo di questo sistema è che la distruzione delle fondamenta economiche di un paese porta ad un’instabilità politica che si risolve nella distruzione economica, sociale e culturale di quel paese, il quale, infine, si sottomette al paese egemone.
Questo è quel che sta avvenendo, e per certi versi è GIÀ AVVENUTO, in Grecia, Spagna, Portogallo ed Italia.
Corollario di questo sistema è che i media, assoggettati, distorcono la verità, facendo passare i nemici come amici, e gli amici come nemici.
Tornando al concetto di fondo, ossia l’unione politica europea, perché questa sarebbe nociva agli interessi statunitensi?
Un’ UE unita sarebbe, molto semplicemente, lo stato economicamente e culturalmente più forte del pianeta.

Papa Francesco
In questo contesto mondiale, sta emergendo, con grande sorpresa, ma con notevolissimo vigore la figura, a dir poco atipica di Papa Francesco.
La dottrina francescana è di una novità e di una forza intellettuale talmente importanti, che anche un laico non può che apprezzarla e prenderla come spunto, se non come fondamenta, delle proprie riflessioni.
In particolare, la ferma opposizione alla guerra in Siria ha sostanzialmente bloccato questa guerra. Tale opposizione, ciò che è di grandissimo rilievo, non è avvenuta sulla base di motivi geopolitici, ma è avvenuta sulla base dei più profondi motivi umani: quella di Papa Francesco è stata un’OPPOSIZIONE NETTA AD OGNI TIPO DI GUERRA, in maniera simile a quanto considerato all’inizio di questa riflessione. Francesco si oppone, infatti, al commercio illegale di armi, alla morte ed alla distruzione come tali ed anch’egli auspicasi un mondo basato sulla pace.
Inoltre, fatto ancor più rilevante, egli ha fatto proprio, e così della chiesa cattolica, quell’individualismo, considerato in questa riflessione come modello filosofico alla base del successo delle nazioni mitteleuropee. Tale individualismo pone l’individuo, proprio quando i neuroscienzati, dopo più di 100 anni di ricerca dalle teorie freudiane, postulano la sostanziale mancanza di libertà interna nelle scelte, in un mondo fatto di libertà essenze: in materie sessuali o in scelte di vita o di morte (aborto, eutanasia), ad esempio, la c
Chiesa non si porrà più, secondo gli intenti francescani, come giudice, etico-morale, del comportamento umano, ma come guida ad un comportamento giusto dell’uomo (ossia improntato al bene verso gli altri) e come supporto psicologico ed anche strutturale alle persone che ne hanno bisogno.

Il ruolo dell’Italia
In questo contesto, l’Italia, per risorgere, economicamente e culturalmente, e per riaffermarsi, grazie alla forza riacquisita, in Europa, ha bisogno di un netto cambiamento di rotta.
Bisogna tagliare i ponti con la politica del passato e con le reti clientelari, da essa foraggiate e che essa hanno sostenuto, e ripartire con un nuovo programma politico, basato sulla riscoperta di quei valori riaffermati da Papa Francesco e su quelli considerati all’inizio.

 
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L’UNIDIMENSIONALITA’ DELLA DISUGUAGLIANZA di Raffaele Vanacore

Alla creazione del Regno d’Italia circa il 2% della popolazione italiana possedeva il diritto di voto (l. n. 4385/1860); la l. n. 593/1882, abbassando l’età a 21 anni e dando maggior peso all’educazione scolastica, portò il rapporto al 7%. Rapporto che tale rimase fino al 1912, che – con la l. n. 665/1912 – portò il suffragio al 23% circa. In sostanza, fino a circa 100 anni fa solo il 7% della popolazione italiana prendeva parte alla politica, ossia alle decisioni riguardanti lo Stato italiano: di conseguenza, tali decisioni erano volte ad avvantaggiare tale ristretta percentuale della popolazione italiana. La legge del 1912 rappresentò un importante momento di svolta nella politica italiana: infatti, sotto l’influenza delle rivendicazioni, da un lato, socialiste e, dall’altro, cattoliche, il Presidente del Consiglio Giolitti ampliò il corpo elettorale. Nel 1918, poi, la  l. n. 1985/1918 ammise al voto tutti i cittadini maschi al di sopra dei 21 anni. In tale contesto, la conquista del potere da parte del fascismo in Italia sembra porsi come risposta degli strati superiori della popolazione italiana (il 7%..) all’espansione della politica, ossia delle decisioni di governo, alla restante popolazione. Non è un caso, poi, che al ripristino della democrazia in Italia siano state proprio le culture socialista e cattolica a svolgere un ruolo determinante nella stesura della Costituzione e nell’introduzione del suffragio universale (esteso quindi anche alle donne). In altre parole, dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia si poneva l’obiettivo di estendere la politica, ossia il potere decisionale, a tutta la popolazione, affinché essa potesse fare gli interessi proprio di tutta la popolazione e, quindi, dell’Italia stessa. Tuttavia, dopo un trentennio di prosperità, il meccanismo si è inceppato: in Italia, sulla scia di altri Paesi sviluppati – Stati Uniti in testa, ma anche Inghilterra e Francia – l’1% ha rivendicato il proprio “diritto” a governare secondo – addirittura – il meccanismo dell’ “un dollaro, un voto”.

Qui il discorso, partito in maniera esemplificativa dall’Italia, va ampliato al mondo intero, alla cui testa vi sono, ovviamente, gli Stati Uniti. Si può partire da alcuni esempi: le 85 persone più ricche del mondo dispongono di una ricchezza pari a quella del 50% più povero del mondo, i 6 eredi dell’impero WalMart detengono una ricchezza equivalente al 30% più povero degli Stati Uniti, il primo 0,1% più ricco degli Stati Uniti percepisce in un giorno quello che il 90% più povero guadagna in un anno, e via discorrendo. Secondo il premio Nobel per l’economia Joseph E. Stglitz, “la disuguaglianza è stata creata. Le forze del mercato hanno fatto la loro parte, ma non erano sole. […] Sebbene le forze del mercato contribuiscano a definire il grado di disuguaglianza di una società, sono le politiche governative a plasmare le forze del mercato. Buona parte della disuguaglianza attuale è quindi un risultato della politica del governo. Il governo ha il potere di spostare il denaro dall’alto al basso o viceversa”. In altri termini – e qui ci ricolleghiamo sia ai precedenti articoli sia all’inizio della discussione sul diritto di voto – l’1% circa della popolazione mondiale, basandosi su ideologie neoliberiste e sull’utilizzo massiccio dei media, sta spostando il denaro dal basso verso l’alto: questo non ha un significato meramente economico, ma ha un impatto su istruzione, salute e lavoro del 99% della popolazione. Questo si può verificare quotidianamente: chiusura di scuole o di ospedali, perdita del lavoro, etc. Di conseguenza, obiettivo di un’informazione libera deve essere quello di informare circa la verità dei fatti e creare le basi per un movimento politico che riporti il 99% della popolazione mondiale al centro del potere politico. Il rischio, se questa deriva non viene fermata, è quello di sfociare nella società ad una dimensione, da cui Herbert Marcuse ormai 50 anni fa metteva in guardia: “una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale”; e ancora, “la perdita delle libertà economiche e politiche, che furono le vere conquiste dei due secoli precedenti, può sembrare un danno da poco in uno stato capace di rendere sicura e confortevole la vita amministrata. […] Se gli individui sono precondizionati a tal punto che i beni che li soddisfano includono pure pensieri, sentimenti, aspirazioni, perché mai dovrebbero voler pensare, sentire ed esercitare l’immaginazione da soli?”.
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Il mistero dei 600 miliardi di Raffaele Vanacore

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Se consideriamo il debito pubblico degli ultimi 10 anni in Italia, questo era di 1.445 miliardi di euro nel 2004 (104% del PIL): oggi (ossia al termine del 2013) invece è di circa 2.067 miliardi di euro (133% del PIL; dati ISTAT). Quindi, un aumento di più di 600 miliardi di euro del debito pubblico: dove sono andati questi 600 miliardi (per considerare solo gli ultimi 10 anni)? Opinione prevalente (perché prevalente? Forse perché questo è il primo indizio di quel perverso intreccio politico-finanziario di cui si è parlato nel primo articolo?) è che tale aumento sia dovuto all’aumento della spesa pubblica, soprattutto per sanità, sistema previdenziale ed istruzione. Tuttavia, dati ISTAT (tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e sociosanitario1) rivelano che la spesa per questo settore sociale si aggira intorno al 25%, è pressoché costante ed, addirittura, si ritiene che rimanga costante nei prossimi anni.

Quindi, questi 600 miliardi NON sono serviti per sorreggere il nostro sistema sociale; dove sono andati a finire?

Un altro indizio va ricercato nel grande aumento della spesa dello Stato per pagare gli interessi sul debito pubblico2 (infatti, sempre secondo l’ISTAT, considerando il triennio 2008/2010 “il contributo più rilevante alla crescita del rapporto debito pubblico/PIL in Italia (ben 14 su 15,4 punti percentuali) è attribuibile alla componente snowball effect (“effetto valanga”), che rappresenta l’impatto combinato della spesa per interessi e del tasso di crescita del PIL3. Posto che la spesa sociale è costante, si può quindi affermare che l’aumento del debito pubblico italiano è quasi unicamente ascrivibile all’aumento degli interessi pagati sul debito. Si possono fare due esempi per chiarire, in maniera immediata, qual è stato l’impatto della finanza, tramite detti aumenti degli interessi da pagare sul debito, sul debito pubblico stesso. In primis, infatti, può farsi l’esempio dell’Irlanda: il suo debito pubblico era del 25% del PIL nel 2008, ora è quasi del 120%4. È forse ipotizzabile che in soli 6 anni la spesa sociale in Irlanda sia quintuplicata? Certamente no. Analizzando i suddetti dati ISTAT, si rivela che quasi il 75% dell’aumento del debito pubblico in Irlanda è dovuto alla somma del saldo primario (che rappresenta la spesa per interessi sul debito) e dello snowball effect. Considerando, invece, il rapporto debito pubblico/PIL dell’UE in questi anni5, emerge un aumento di più del 25% (66% nel 2007, 92,7% nel 2014): imputabile ad un aumento della spesa sociale? Evidentemente no.

In definitiva, negli ultimi 7-10 anni si è avuto in Europa, come dimostrano i dati, un netto aumento della spesa per gli interessi sul debito, mentre la spesa sociale è rimasta costante.

Ora, considerando l’Italia, questa somma ammonta, come si è visto, a circa 600 miliardi di euro. Prima di cercare di scoprire a chi sono andati questi soldi, occorre un inciso circa i produttori di denaro. In altre parole, chi crea denaro? Con la lira, in Italia, era ovviamente la Banca d’Italia a creare denaro; con l’euro, invece, è la Banca Centrale Europea a produrre denaro. Tuttavia, quello che è probabilmente un macigno sui Paesi europei ed una fonte di grosso guadagno per le banche è che la BCE non può prestare denaro ai Paesi dell’UE né può comprar loro titoli di stato, ma può prestar soldi, a tassi dell’1%, alle banche private; di conseguenza, gli Stati, piuttosto che finanziarsi tramite la BCE ad un tasso dell’1%, sono costretti a finanziarsi tramite la banche ad un costo nettamente maggiore. Ed è probabilmente qui, in questo sovrapprezzo pagato alle banche, che va ricercata la destinazione di questi 600 miliardi di euro.

A complicare il quadro è stata l’introduzione, prontamente ratificata dal Parlamento italiano, del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), altrimenti detto Fondo salva-Stati: tuttavia, sarebbe meglio chiamarlo meccanismo “affonda-Stati”. Difatti, oltre a non poter (anch’esso!) prestar soldi agli Stati (ma ovviamente li può prestare alle banche private con meccanismi simili a quanto detto sopra), è stato costituito con un capitale di 700 miliardi di euro, con una spesa di 125 miliardi di euro da parte dell’Italia6. In sostanza, queste scelte finanziarie hanno notevolmente minato l’economia italiana, che si è vista privare di più del 30% del proprio PIL a tutto vantaggio, come ampiamente dimostrato con i dati sopra, di queste banche private: in altre parole, si è trattato di un saccheggio.

Continuando nell’analisi, sempre secondo l’ISTAT7, la diseguaglianza in Italia dal 2004 (sarà forse un caso?) è in aumento: in altre parole, i ricchi sono sempre più ricchi, i poveri ed il ceto medio sempre più poveri. È forse quindi azzardato ipotizzare che i ricchi hanno avuto un vantaggio da questo saccheggio, mentre i poveri hanno avuto uno svantaggio? Altro che aumento della spesa sociale! Manco a dirlo, in tutto il mondo la tendenza è questo, secondo il recente studio dell’OCSE “Devided we stand: why inequality keeps rising”, infatti, “la disuguaglianza dei redditi nei paesi dell’OCSE ha raggiunto il livello più alto dell’ultimo mezzo secolo. Nei paesi dell’OCSE, il reddito medio del 10% più ricco della popolazione è circa nove volte quello del 10% più povero, salendo rispetto alle sette volte di 25 anni fa”. Quindi, da questa crisi il 10% del mondo ha tratto vantaggio (e probabilmente gran parte di quei 600 miliardi), mentre il restante 90% ha visto ridurre la propria ricchezza.

 

Perché si prendono questi soldi? Oltre allo scontato motivo economico, vi è un motivo più velato, ma non meno importante. Questo motivo è prettamente politico. In altre parole, quello sui cui si regge l’UE, quello che in pratica accomuna gli Stati europei, è proprio lo stato sociale: questo, infatti, è l’approdo di 3.000 anni di cultura e di filosofia europei, massimamente evidenziabili nell’art. 3 della nostra Costituzione: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

In sostanza, lo stato sociale si propone di far sì che tutti gli individui godano dalla nascita di pari opportuni di sviluppare la propria libertà.

Tuttavia, questo modello ha iniziato, sin dopo la Seconda Guerra Mondiale, sotto l’influenza ideologica americana, un declino, lento e più che altro ideologico fin a circa 20 anni fa (si può considerare finito con il prelievo forzoso sui conti correnti da parte di Amato nel 1992), rapido e fattuale negli ultimi anni. In sostanza, questo sarebbe stato un attacco allo stato sociale, effettuato per coinvolgere l’Europa intera in un mondo neoliberale, ossia per determinare il passaggio ad una economia di tipo “americano” (con le enormi diseguaglianze in essa presenti: ad esempio, l’1% della popolazione possiede il 42% della ricchezza, massimo storico). Questo sarebbe finalizzato ad aumentare, anche in Europa, la quota di ricchezza dell’1% della popolazione a discapito di quella del restante 99%.

Quindi, lo scenario che si è presentato è stato questo: la crisi ha fatto esplodere il debito pubblico, i media compiacenti (e qui si ritorna al primo articolo) hanno fatto e fanno credere che ciò sia dovuto ad un eccesso di spesa sociale, i governi tagliano la spesa sociale, l’1% si arricchisce ed il 99% diviene più povero. Con “diventare più povero” si intende non solo l’effettivo ridursi della ricchezza, ma la netta diminuzione della qualità della vita, con impossibilità (o difficoltà) ad accedere a servizi sanitari, assistenziali e formativi adeguati. In pratica, secondo Luciano Gallino “uno degli obiettivi di fondo del colpo ti Stato in questione appare chiaramente essere quello di privatizzare i sistemi di protezione sociale al fine di dirottare verso le imprese e le banche il loro colossale bilancio, smantellando all’uopo lo stato sociale in tutta l’UE”10.

Inoltre, analizzando ancor più a fondo la questione, l’attacco allo stato sociale europeo si configura come un vero e propria attacco al processo di integrazione politica dell’UE, come se esso fosse un processo politico da evitare; infatti, l’avanzata di partiti nazionalisti, anti-europeisti, è ormai un dato di fatto. Questo attacco si rende possibile da un lato, come detto, grazie a media compiacenti11, dall’altro grazie a politici altrettanto compiacenti, che, dietro milionari compensi, fanno da “palo”, ossia controllano che nessuno intacchi o contesti questo disegno.

Quindi, a chi sono andati i 600 miliardi?

 

 

1http://www2.sanita.ilsole24ore.com/Sanita/Archivio/Normativa%20e%20varie/RGS%20Le-tendenze%20Rapporto_n.13.pdf?cmd=art&codid=27.1.1025744692

2http://keynesblog.com/2012/08/31/le-vere-cause-del-debito-pubblico-italiano/

3http://www.unite.it/UniTE/Engine/RAServeFile.php/f/File_Prof/ANTOLINI_2042/Audizione_debito_pubblico.pdf

4http://it.tradingeconomics.com/ireland/government-debt-to-gdp

5http://www.bancaditalia.it/eurosistema/comest/pubBCE/mb/2011/aprile/mb201104/articoli_04_11.pdf

6http://it.wikipedia.org/wiki/Meccanismo_europeo_di_stabilit%C3%A0

7http://www.istat.it/it/files/2013/03/4_Benessere-economico.pdf

8http://www.oecd.org/social/soc/dividedwestandwhyinequalitykeepsrising.htm

9http://www.sokratis.it/indagine-sulla-disuguaglianza-sociale-negli-stati-uniti/

10 Luciano Gallino- Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa

11 “I media che creano e propagano la narrazione semiufficiale che spiega al popolo ciò che ha causato a crisi del deficit, e quali politiche dovrebbero venir adottate, non dicono la verità a proposito di questo tema cruciale. Non esiste forse una singola importante fonte nei media che goda della fiducia di larghi segmenti della popolazione la quale dica essa la verità in merito alla crisi del deficit” – J. Crotty-The great austerity war: what caused the deficit crisis and who should pay to fix it
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La politica ed il nuovo giornalismo di Raffaele Vanacore

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Riporto qui l’articolo pubblicato per la rivista online Aequanews, a cui si rimanda per maggiori informazioni e notizie sulla città di Vico Equense

 

Prima di iniziare ad esprimere il ruolo che riteniamo rivestirà il giornalismo nei prossimi anni ed il suo impatto sulla politica, vorrei sentitamente ringraziare Enrico e Viviana per l’opportunità che mi hanno dato di scrivere, e condividere, quelli che sono i miei pensieri, in altre parole dell’opportunità di far parte di questa nuova e giovane esperienza giornalistica. Nuova e giovane esperienza giornalistica che si inserisce nel nuovo contesto culturale ed editoriale del mondo d’oggi.

Tuttavia, per capire il contesto editoriale di oggi, e quindi per capire in quale posizione si vuole porre quest’esperienza, occorre conoscere il contesto editoriale di ieri. Il contesto editoriale di ieri risulta, infatti, ben analizzato, in particolare, da un grande linguista americano Noam Chomsky: secondo il suo modello, il sistema editoriale (rappresentato in massima parte da mass-media e giornali) sarebbe una “fabbrica del consenso” (e la tesi qui riportate son tratte proprio da “La fabbrica del consenso. La politica ed i mass media” – N. Chomsky ed E. S. Herman).

Secondo Chomsky, dunque, “il postulato democratico è che i media sono indipendenti ed hanno il compito di scoprire e di riferire la verità, non già di presentare il mondo come i potenti desiderano che venga percepito. I responsabili dei media affermano che le loro scelte sul terreno dell’informazione sono frutto di criteri imparziali, professionale ed oggettivi e sono confrontati in questa loro pretesa dalla comunità intellettuale. Ma se i potenti sono in grado di fissare le premesse del discorso, di decidere che cosa la popolazione in generale deve poter vedere, sentire e meditare, e di “dirigere” l’opinione pubblica mediante regolari campagne di propaganda, il modello tipico di come il sistema deve funzionare è in netto contrasto con la realtà” (corsivo del redattore, ndr).

Secondo tale modello, il sistema editoriale si basa su filtri come dimensione, proprietà ed orientamento al profitto dei mass media; pubblicità come licenza di stare sul mercato; la scelte delle fonti da parte dei media. In sostanza, quanto più un gruppo editoriale è grande e ricco, quanta più pubblicità è in grado di percepire, tanta maggior influenza avrà sulla politica. In sostanza, questo è un modello verticistico, dall’alto verso il basso, in cui i grossi gruppi editoriali decidono cosa far conoscere ai cittadini, “infiocchettano” le informazioni e le “regalano” ai cittadini, che così, in supposta libertà di scelta, sceglieranno proprio quel che questi grossi gruppi volevano.

Tale modello editoriale viene a porsi in quella che Charles Wright Mills, grandissimo sociologo americano, considera l’élite del potere (si rimanda proprio a “L’élite del potere”- C. W. Mills), costituita dalle “three bigs”: élite editoriale, élite politica ed élite militare.  Queste élite influenzano, manipolano ed, in ultima analisi, comandano. Tuttavia, per Mills, questo è solo un processo storico, da superare per raggiungere un pieno svolgimento democratico. Le teorie di questi due grandi politologi americano si rivelano, addirittura, peggiori se guardiamo all’Italia: nel nostro Paese, infatti, per troppo tempo l’élite, per ricorrere alle fortunate espressioni di Mills, si poteva riconoscere, in fondo, in un’unica persona (in una moderna versione del “l’état est moi!”).

Oggi, grazie soprattutto all’avvento delle nuove tecnologie, si sono aperti nuovi orizzonti per il giornalismo: da un’informazione verticistica, monocratica, élitaria, ci si sta muovendo verso un nuovo giornalismo, orizzontale, dal basso al basso, “popolare”. Ed è in questo contesto, libero e democratico, che questa esperienza giornalistica vuole porsi. Riteniamo che l’informazione libera possa aiutare Vico Equense, come l’Italia, come l’Europa, come il mondo intero, a sviluppare interamente la democrazia, come ci ricorda l’art. 21 della nostra Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
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