Europa, un problema di comunicazione e di…..educazione – di Francesco Pascuzzo

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Di Europa si parla sempre meno del dovuto, quando poco quando troppo fino alla nausea. Ma l’effetto è sempre lo stesso. Al voto si sono recati molti meno italiani rispetto al 2009, quando il Parlamento Europeo era fresco di novità dopo il varo della strategia di Lisbona (2008). Oggi, facendo i conti con la netta affermazione delle forze stataliste ed euroscettiche – da Farage al FN della Le Pen alla Lega Nord fino ai 5 stelle – è automatico dover fare riferimento anche ad un sempre più evidente problema di comunicazione.

Che si tratti di comunicazione distorta, o di informazione in senso univoco, sussiste comunque sia una netta presa di posizione contro l’Euro e contro l’integrazione europea. Fra i grandi d’Europa, come sottolineato l’indomani delle elezioni dal quotidiano Il Sole 24 ore in una rapida analisi delle forze del nuovo Parlamento di Strasburgo, a far la voce grossa e sbattere i pugni sul tavolo è stata senza dubbio la Francia. La punizione transalpina alla classe politica del Presidente Hollànde e la netta affermazione del Front Nacionàl di Marine Le Pen suona troppo da schiaffo morale al resto d’Europa. L’asse con Berlino può ora ritenersi interrotto.

Analizzando Stati come l’Italia o altri paesi dell’Europa del sud, quindi mediterranea, salta all’occhio invece il progressivo lento declino di quelle belle parole e velleità d’integrazione con la sponda sud del mare nostrum. Chiusisi in sé stessi – salvo il boom del Pd di Matteo Renzi (40 %) – i paesi euro mediterranei hanno praticamente abbandonato ogni speranza di “contagio” con le culture dei loro dirimpettai. Negli anni ’90 con la Dichiarazione di Barcellona si tentò una prima via verso il superamento dei confini, con il lancio di politiche d’integrazione con il nord Africa poi fallite a cause di serpeggianti nazionalismi sotterranei. La dottrina dello “scontro di civiltà” seguente la Guerra fredda fra Usa e Urss sembra essere stata totalmente messa da parte, per lasciar spazio ad un ritorno alla chiusura in sé stessi per trincerarsi dietro lo spauracchio della crisi economica. Anche in tal caso un problema di comunicazione, come lo è stato tre anni fa in occasione delle primavere arabe nel Maghreb oppure per l’annosa questione Frontex (inadatta a fronteggiare l’immigrazione clandestina in Italia). Quello che i partenariati euro mediterranei avrebbero potuto significare se applicati alla lettera può ora ritenersi lettera morta in seguito al voto dello scorso 25 maggio. Sempre negli anni ’90 partì dall’europarlamentare Jaques Delors un nuovo piano di comunicazione europea, che garantisse efficacia nell’informare il pubblico circa le politiche dell’Ue. Ma giocoforza le ondate populiste ed euroscettiche degli ultimi anni hanno preso in mano la situazione, restando poca cosa le belle intenzioni di alcuni anni fa contenute nel Libro Bianco sulla Comunicazione dello stesso Delors.

Le frontiere della comunicazione multimediale, con Twitter e gli altri social network divulgativi stentano ancora a mostrare la loro reale potenza rendendo sexy le tematiche europee per i comuni cittadini. L’Europa resta ancora oggi uno stereotipo lontanissimo dall’uomo qualunque, dal povero pensionato di paese e dal giovane senza speranze della piccola provincia meridionale. I media di oggi possono ancora dire l’ultima parola contro il deficit d’informazione ormai endemico nell’eurozona ? Tre sono gli obiettivi cardine: comunicare, informare, educare. L’ultimo di essi quello di più difficile attuazione. Il dibattito non è però assolutamente morto, anzi è proprio in questi giorni che ad esempio nella città di Napoli ci si sta confrontando intorno alle reali possibilità di riuscita delle nuove generazioni nella futura Europa 2020. Un interessante dibattito è stato infatti avviato intorno a tale tema dall’associazione Prospettiva Europea in collaborazione con la sezione Gfe Napoli (Gioventù federalista europea). In memoria del Manifesto di Ventotene e di Altiero Spinelli non muore, anzi risorge in questi giorni, quell’originaria spinta verso l’unitarietà europea.

Francesco Pascuzzo

 
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Cosa fare?

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Il diradarsi del profilo politico italiano, ormai intrecciato a quello europeo,consente una chiara definizione dello stesso: da un lato, infatti, sembrano cristallizzarsi quelle forme monostatiche – e quasi indistinguibili – di “governi delle larghe intese”. Essi, in altre parole, rispecchiano nient’altro che vecchie forme partitiche – per non dire vecchi centri di potere – non più in grado, per il loro stesso fallimento, di assicurarsi da sole il potere. Ecco che allora necessitano l’una dell’altra per alimentare il proprio potere, spesso così ben radicato nei più profondi, quanto nei più superficiali, gangli istituzionali dei vari Paesi. Il collante di queste proposte, differenti spesso solo per il colore dei simboli, in quanto esse stesse vittime di un’osmosi incontrastabile, per sua natura liquida, non è nient’altro se non l’ideologia economica, che – in conseguenza dello sradicamento della cultura come forma politica – si è radicata, ipso facto, come fondamento di ogni politica. La divisione politica non è più culturale, è economica. Questo concetto può non sembrare nuovo – di certo è di matrice marxista – ma si rivela di assoluta rilevanza se posto in relazione con l’evidenza che partiti, pur culturalmente diversi, sono ormai economicamente armonizzati. È per tale motivo, dunque, che la battaglia politica futura si svolgerà su basi economiche.

Difatti, se da un lato – come visto – l’orizzonte politico è occupato da questo monolitico, ma fluido, blocco autocratico, dall’altro lato si levano all’orizzonte nuove forme di nazionalismi egoistici e di razzismi xeno-omofobi. Essi sfruttano – come già Altiero Spinelli ricordava nella sezione del Manifesto dedicata alla formazione degli Stati Uniti d’Europa – “le tendenze atavistiche latenti nell’animo umano” e lo Spinelli scopriva, con lucida lungimiranza e franchezza, che questo “è in realtà un docile strumento in mano alle ristrette caste veramente dominanti ed è adoperato per sottomettere altri popoli” (ibidem). Ora, svelata la natura viziata – perché cognitivamente fondata e socialmente sfruttata – dei nuovi razzismi, ricordato che i fascismi nacquero come risposta di queste classi dominanti all’avanzare delle rivendicazioni socialiste (), posto a fondamento dell’azione politica sincera la creazione – in senso francofortese – di una “società senza sfruttamento”, si impone l’esigenza di una politica altresì fondata. L’evidenza che tanto il monocratico blocco delle “larghe intese” quanto i nuovi razzismi sono “in mano alle ristrette caste veramente dominanti” e che – per compiacere i loro interessi – praticano una politica economica di stampo schiettamente neoliberista, il cui unico scopo è quello di una ridistribuzione bottom-up della ricchezza ed il cui unico risultato – non imprevedibile – è stato la creazione di una società estremamente diseguale, suggerisce – in un’ottica di scontro economico, come delineato all’inizio – la genesi di un movimento con nuove basi economiche.

A fondamento di questa sfida politica all’economia neoliberista andrebbe posta una seria ricerca socio-economica che crei le fondamenta per un nuovo tipo di società. Ad esempio, sia la vecchia concezione keynesiana di fondi statali all’economia per stimolare la crescita – per la constatazione che gran parte di questi fondi finiscono in mano a capitali monopolistici con gli unici risultati di arricchire questi ultimi e di aumentare il debito pubblico – sia la concezione della tassazione come redistribuzione della ricchezza – per il medesimo fatto: i soldi delle tasse vanno a finanziare spesso abili gruppi finanziari (vedi) – impongono la ricerca di strade alternative per lo sviluppo e per la creazione di lavoro. Ad esempio, è possibile riconoscere perché il debito pubblico è aumentato, svelando i colpevoli e liberando così i singoli Paesi dall’obbligo di ripagare i debiti così contratti? Ancora, perché non parlare – oltre che di riduzione del debito – di aumento del Prodotto Interno Lordo, investendo nelle tecnologie e nel capitale umano? Questi, certo, sono solo modesti e banali esempi, ma devono servire per chiarire le vie da percorrere.

Per riuscire a sviluppare al massimo questa ricerca socio-economica occorre che tale movimento sia profondamente radicato nelle università, non solo in quelle economiche (che, tuttavia, sono largamente dominate da una cultura neoliberista, in massima parte espressione della Scuola di Chicago), ma anche, e soprattutto, in quelle di scienze sociali (vedi). In poche parole, la cultura in senso lato, la ricerca sociale insomma (vedi), dovrebbe essere il presupposto della formazione di questo movimento (come è avvenuto in Spagna con il movimento Podemos, per intenderci).

Un movimento così formato, poste queste basi economiche e la ricerca socio-economica come suo fondamento, dovrebbe poi dispiegarsi nella società. A questo punto – per affrontare il problema di primaria importanza, ossia la creazione del consenso – viene sicuramente in aiuto la tecnologia. Così come Roosevelt riuscì a creare un consenso – nonostante gli attacchi anche personali a lui e Keynes – potendo poi applicare quel New Deal che fece risollevare gli americani dalla devastante crisi del ’29, “entrando nelle case” grazie alla radio, ecco che, per applicare questo New Deal europeo, bisogna “entrare nelle case” degli italiani per spiegar loro le vere cause della crisi e far conoscere le proposte socio-economiche.

In tal modo – ed in associazione, ovviamente, alle più classiche forme di partecipazione politica quali il volontariato, le assemblee ecc. – si potrà creare una nuovo comunità, nel vero senso di pensieri ed idee comuni, che consentano all’Italia ed all’Europa di risollevarsi da queste situazione di sfruttamento.

Raffaele Vanacore
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Stati e nazioni

danae.ricercasociale

Il concetto di Stato, ad un’analisi profonda, si pone come esso è realmente e come non ci appare: esso è un concetto storico ed, in quanto storico, deve concedersi ad una profonda critica ed all’analisi stessa del suo ruolo nel futuro. In somma, quale è e quale sarà il ruolo dello Stato nel mondo globalizzato?

Il concetto di Stato che noi abbiamo è quello di un territorio, solitamente omogeneo per cultura, religione e lingua, che si dà delle leggi, specie politiche ed economiche, atte a regolare la vita delle persone al suo interno. La finalità dello Stato sarebbe quella dello sviluppo di se stesso e, di conseguenza, della popolazione al suo interno. Posta in questi termine, la questione si svolge in questo testo: come si sviluppa lo Stato?

Lo Stato ha conosciuto diversi modi di espressione, a partire dalle poleis greche fino agli imperi di qualche secolo fa…

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Elezioni europee: cosa succederà?

L’esito di queste elezioni, che hanno travalicato i confini nazionali per spostarsi su di un piano più nettamente europeo, impone, per ciò stesso, una serie di riflessioni, che – appunto – non sono più nazionali, ma europee. È in questo contesto, infatti, che risulta evidente come il sistema politico tenderà verso un sistema proporzionale. Di conseguenza, scelte di campo politicamente ambigue non saranno più possibili: occorrerà lavorare in un contesto europeo, costruendo una piattaforma programmatica comune ed una base politica solida che possa attuare questo programma.

In tal contesto proporzionalizzato, la strategia politica finora preferita dall’attuale establishment politico-finanziario, per preservare se stesso e perseguire i propri interessi, schiettamente neoliberisti, è quella delle larghe intese: come è ormai evidente, le due principali formazioni di riferimento, il PPE ed il PSE, si coalizzano, si spartiscono le cariche e governano. La differenza tra loro non esiste più.

Ad opporsi a questa politica delle larghe intese sembra essere una emergente politica anti-sistema, che – pur legittima come fini – si basa su presupposti politici decisamente estremisti e reazionari: il collante di tali forze è, infatti, il più delle volte un fermo nazionalismo (spesso perseguito con il corollario dell’uscita dall’Euro o addirittura dall’UE) associato ad una politica anti-immigrati, autoctona ed ai limiti del razzismo.

A queste politiche delle larghe intese ed a quelle estremiste-nazionaliste dovrebbe opporsi, con l’obiettivo, tuttavia, piuttosto che di rimanere opposizione ad vitam (come taluni movimenti italiani sembrano prefiggersi), di creare le basi per governare e cambiare realmente l’attuale politica socio-economica europea, un movimento pan-europeo che abbia l’intento di salvaguardare i cittadini europei, specie quelli meno tutelati, dall’avanzata neoliberista, che ha caratterizzato gli ultimi decenni ed ha condotto ad una serie di diseguaglianze (precariarizzazione del mondo del lavoro, disoccupazione, smantellamento dello stato sociale, etc.), e di costruire su nuove basi il sistema di Welfare.

Sono le storture del sistema di redistribuzione del reddito (ad esempio, Amazon paga lo 0,5% sui ricavi delle vendite) e, di conseguenza, del sistema di tassazione, unitamente ai cambiamenti globali e demografici, ad aver messo in crisi i sistemi di Welfare europei, che si stanno avviando ad un rapido smantellamento. È proprio la consapevolezza di queste enormi difficoltà socio-economiche che rendono fondamentale – come base di questa nuova costruzione politica – la ricerca sociale, intesa – in senso francofortese – come studio tanto degli aspetti sociali ed economici, quanto di quelli psicologici e culturali.

In altri termini, la costruzione di questo progetto politico, di orizzonti europei (ma non limitato all’Europa, ma basato – ad esempio – anche sugli studi di diversi economisti americani quali Stiglitz e Krugman) non va intrapresa sulla base di slogan, che solitamente rendono accettabili, in altre parole mascherano, i veri interessi determinanti, ma sulla base di un reale studio dei fattori deterministici socio-economici che hanno reso talmente distorta la nostra realtà e di proposte, in tal modo elaborate, validabili.

È a tal fine che risulta necessaria una politica basata sulla ricerca, sull’informazione e sulla cultura. In second’ordine questi aspetti, così studiati, vanno diffusi, per diffondere al massimo la verità socio-economica e le relative proposte per contrastare le diseguaglianze.

Accanto a questi aspetti socio-economici, inoltre, altro pilastro, ma per certi versi necessaria conseguenza, di questo movimento dovrebbero essere i diritti civili: un movimento che contrasti lo sfruttamento, il razzismo e le quotidiane tragedie (Lampedusa, Piana del Sele, etc.) non si preoccupa di non prendere “lo zero virgola”, ma di contrastare realmente queste storture, lottando – sulla base di grandi esempi come quello di Gino Strada – anche per chi non ha diritti politici. I loro inalienabili diritti umani bastano per rendere le loro battaglie le nostre battaglie. E pertanto qualsiasi politica anti-immigrati e razzista va respinta. Anche alle battaglie ambientaliste ed animaliste tale movimento dovrebbe estremamente sensibile.

La nascita di un tale movimento, unito e forte, deve essere l’obiettivo del futuro, prossimo quanto remoto; come ricordava Altiero Spinelli:

La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!”

Raffaele Vanacore
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Gramsci e l’egemonia culturale, ovvero il futuro delle università italiane

“La supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come dominio e come direzione intellettuale e morale” A. Gramsci – Quaderni del carcere

Il pensiero di Gramsci, ed in particolare la sua idea di egemonia culturale, risulta di estrema importanza, se valutato senza pregiudizi ideologici, nel contesto delle elezioni europee e dei loro possibili sviluppi sociali.
Difatti, come ci ricorda la citazione sopra, l’egemonia di un gruppo sociale si esplicita non solo come dominio politico, ma – forse in maniera decisiva – come “direzione intellettuale e morale”. Questa è l’egemonia culturale.
Gramsci riteneva che la causa principale per la quale la rivoluzione socialista non si era sviluppata era proprio che quest’egemonia culturale fosse di stampo borghese-capitalista; di conseguenza, presupposto per la riuscita di una tale rivoluzione era l’instaurazione di una egemonia culturale “socialista”, che si plasmasse a livello cognitivo nella popolazione e rendesse possibile il dominio da parte del proletariato.

Oggi che il proletariato non si esprime più come classe e che si è avuto un livellamento della maggior parte della popolazione su di un certo tenore di vita medio-basso, l’egemonia culturale è stata fatta propria da parte di quell’ideologia neoliberista, che negli ultimi 30-40 anni si è rivelata dominante, in particolare negli USA ed in Inghilterra.
Questa egemonia culturale si è potuta manifestare in un modo molto semplice: il degrado delle università statali e lo sviluppo di università private. Non è difficile capire come le università private facciano, in ultima analisi, gli interessi di quei gruppi economici che le finanziano e che sono incondizionabilmente schierati a favore di questa ideologia neoliberista, che tanti benefici ha portato a questi gruppi sociali più ricchi (l’1% di Stiglitz..), che ha distrutto le fondamenta dei sistemi di Welfare europei – creando devastanti disuguaglianze – e che mira solo a perpetuare il loro dominio.

Ora, la galoppante corsa di partiti espressamente schierati a favore di questa ideologia neoliberista mira – in maniera essenziale – alla riduzione dei fondi per le università statali (allo stesso modo di quel che è avvenuto per la sanità), con il ben preciso obiettivo di trascinare anche l’Italia nel giogo di questa nuova egemonia culturale neoliberista.
È proprio per i danni che quest’ideologia ha portato all’Italia ed al mondo intero che bisogna opporsi a questo disegno egemonico e ricordarsi di questi scenari quando si andrà a votare.

Raffaele Vanacore

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Europee: chi vota chi?

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L’imminente voto europeo suggerisce una breve riflessione circa i flussi elettorali: se, da un lato, la sinistra ha storicamente ottenuto circa un terzo dei voti, dall’altro, gli schieramenti di centro e di destra, variamente combinati, hanno ottenuto in genere circa la metà dei voti, lasciando così circa un sesto dei voti ad altre forze.
Tuttavia, quel che si presenta di grande novità alle prossime elezione europee è il superamento, da parte delle forze di centrosinistra, di una politica socialdemocratica e l’approdo verso una politica neoliberista (sulla scia di quanto avvenuto 20 anni fa in America con Clinton ed in Gran Bretagna con Blair).

Ora, tralasciando i giudizi nel merito di questa svolta neoliberista della sinistra , che pur ha reso possibile una costruzione di una società più diseguale (si vedano le solite critiche di Krugman, Stiglitz, Gallino e del sindaco di NY De Blasio) e che è, di conseguenza, largamente appoggiata dai più influenti mass-media, cerchiamo brevemente di analizzare chi sono gli elettori del nuovo centrosinistra (praticamente del PD).
Dopo 20 anni di politiche neoliberiste “di sinistra” (preceduti da 12 di politiche neoliberiste di destra, con Reagal-Bush e la Thatcher), gli evidenti fallimenti di queste politiche (da un punto di vista sociale, sia chiaro, perché da un punto di vista politico-economico i risultati socio-economici erano proprio i loro obiettivi), piuttosto che portare ad una seria critica di questa ideologia neoliberista, sembrano non avere alcuna influenza sui flussi elettorali italiani delle prossime elezioni europee.

Se, per un verso, infatti, l’elettorato “anti-sistema” italiano, un tempo storicamente fulcro della sinistra italiana, sembra votare il M5S, per un altro verso quella fetta di popolazione, sia giovane che adulta, che un tempo si riconosceva nell’area di centro-destra sembra intenzionata a votare il PD, ed il suo leader Renzi in particolare.
Le numerose apparizione di Renzi sulle reti Mediaset di Berlusconi non fanno altro che confermare questa tesi: per evitare la vittoria delle forze anti-sistema (anti-neoliberiste si potrebbero definire), Berlusconi sta consegnando deliberatamente gran parte del proprio elettorato al leader PD, per evitargli la sconfitta e preservare il sistema.

In tal modo, la pseudo-sinistra italiana, forte di nuovi voti, riuscirà probabilmente ad avere un buon successo elettorale alle europee ed, in futuro, proprio grazie a queste forze di centro-destra (NCD, FI, etc.) che già ora la appoggiano – sia politicamente che mediaticamente – governerà (per il prossimo ventennio?) l’Italia.
E lo farà continuando sulla solita strada di tasse, smantellamento del Welfare e perdita della sovranità.
Quando andremo a votare, occorrerà avere ben presente questo scenario..

Raffaele Vanacore

 
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Programma M5S

Il Movimento 5 Stelle, al momento, è l’unica organizzazione politica strutturata italiana, tra quelle partecipanti alla competizione elettorale europea, ad avere un programma, proprio perché è l’unica formazione davvero europeista: esattamente il contrario opposto a ciò che affermano i professionisti al soldo della cupola mediatica. Infatti il PD, Forza Italia, Lega Nord, agitano solo slogan demagogici generici, basati sui trend correnti, tentando di cavalcare il disagio sociale.
Ecco che cosa intendono portare avanti i candidati cinque stelle quando andranno a Bruxelles, come portavoce europei a nome degli italiani pensanti:

 

 
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La politica ed il nuovo giornalismo di Raffaele Vanacore

danae.ricercasociale

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Riporto qui l’articolo pubblicato per la rivista online Aequanews, a cui si rimanda per maggiori informazioni e notizie sulla città di Vico Equense

Prima di iniziare ad esprimere il ruolo che riteniamo rivestirà il giornalismo nei prossimi anni ed il suo impatto sulla politica, vorrei sentitamente ringraziare Enrico e Viviana per l’opportunità che mi hanno dato di scrivere, e condividere, quelli che sono i miei pensieri, in altre parole dell’opportunità di far parte di questa nuova e giovane esperienza giornalistica. Nuova e giovane esperienza giornalistica che si inserisce nel nuovo contesto culturale ed editoriale del mondo d’oggi.

Tuttavia, per capire il contesto editoriale di oggi, e quindi per capire in quale posizione si vuole porre quest’esperienza, occorre conoscere il contesto editoriale di ieri. Il contesto editoriale di ieri risulta, infatti, ben analizzato, in particolare, da un grande linguista americano Noam Chomsky: secondo il suo modello, il sistema editoriale (rappresentato in…

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Il coraggio e il degrado

danae

Motivo principale, che ha portato alla luce questo blog, è la banale, ma sincera, volontà di cambiamento: essa nasce, a sua volta, dal degrado economico-istituzionale, a sua volta, ancora, intrecciato ed a suo modo armonizzato a quel profondo degrado socio-culturale tipico del nostro tempo.
Ma in cosa consiste questo profondo degrado socio-culturale e quindi, di conseguenza, economico-istituzionale?
Il degrado sociale, che spesso in prima persona con ansia viviamo, è classicamente rappresentato dalla disoccupazione, dal lavoro sottopagato, dalla pensione minima, dalla negazione dei più elementari diritti, quali quello alla salute o all’istruzione. Tale questione – e questo è di assoluta preminenza – non va meramente intesa come un aspetto marginale, quasi collaterale e necessario, della struttura sociale, ma – purtroppo – come meccanismo di controllo sociale.
Questo meccanismo di controllo sociale è il frutto di una cultura, anzi di un’ideologia, neoliberista, che, riconoscendo una apparente libertà socio-economica ad ogni individuo, crea invece, volutamente, uno stato in cui chi è avvantaggiato, in assenza od in presenza di una grossa limitazione agli aiuti sociali, risulta sempre più avvantaggiato, creando così una società estremamente diseguale.
Smascherata già da Adorno ai suoi albori, l’ideologia neoliberista è un’ideologia totalitaria: come ideologia totalitaria intendiamo quell’ideologia che mira al controllo, da parte di un ristretto numero di persone, del potere politico, e di conseguenza economico. Questo è il degrado culturale.

Tale degrado socio-culturale ha potuto definitivamente realizzarsi grazia alle modifiche del sistema economico-istituzionale del mondo intero: la creazione, in particolare, di organismi sovranazionali non elettivi (BCE, FMI, Commissione Europea, OCSE, etc.) e di un sistema economico mondiale, in altre parole della globalizzazione, ha distorto il potere politico, sottraendolo alla maggior parte dei cittadini e riconsegnandolo, finalmente, alle élite politico-economiche (si veda “Le élite del potere” di C. W. Mills).
Il controllo del potere politico-economico da parte di un ristretto numero di persone è l’obiettivo dei gruppi preminenti: la semplice constatazione che, fino a circa 100 anni fa, nel mondo occidentale il diritto di voto – cha a quel tempo poteva effettivamente ritenersi espressione del potere politico – era detenuto da non più del 5% della popolazione, lascia facilmente considerare come l’obiettivo di queste élite sia proprio quello di riaffermare il suo potere.
Il fine delle riforme economico-istituzionale attuate è stato, dunque, quello di rendere definitivo il ritorno ad una struttura sociale così diseguale. Le analisi di tutti i maggiori economisti, di Stiglitz e Krugman in particolare, non lasciano aditi a dubbi: queste riforme socio-economiche, insomma politiche, hanno deliberatamente creato un mondo diseguale.
In sintesi, il degrado economico-istituzionale ha determinato il degrado socio-culturale che viviamo.

È in questo contesto critico, che vuole porsi la nostra via. Se “radicale”, infatti, vuol significare “andare alla radice dell’essenza”, ecco che noi siamo radicali: vogliamo andare, tramite un processo di ricerca sociale, alla radice delle cose.
La radice delle cose, ossia l’abisso della conoscenza, si raggiunge con l’informazione e la cultura: informazione e cultura, come novelle Muse, vogliono portarci a fondo della coscienza, in quel modesto spazio non ancora colonizzato dalla società e dal tempo.
In questo processo di astrazione, ma estremamente concreto, riusciamo a raggiungere la nostra verità. Tutti abbiamo una nostra verità, ma la sua espressione, tipicamente artistica e politica, è spesso bloccata.
Tale verità presuppone un rovesciamento di quel sistema che – abbiamo visto – è la causa del degrado: è a questo fine, per costruire un’alternativa,  che ci proponiamo di condividere la cultura e l’informazione.

Raffaele Vanacore
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Intervista ad Alexis Tsipras

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Riportiamo l’intervista del Sole24 ad Alexis Tsipras

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-04-18/tsipras-un-new-deal-europeo-063826.shtml?uuid=ABJBr8BB

Alexis Tsipras, 39 anni, leader di Syriza, candidato alla Commissione europea, è capolista di una lista Ue sostenuta in Italia da Sel e Rifondazione. Tsipras è reduce da una dura battaglia parlamentare condotta nei giorni scorsi contro l’ultimo provvedimento omnibus di riforme suggerite dalla troika in cambio della tranche di prestiti. Il cancelliere tedesco Angela Merkel, in visita la settimana scorsa ad Atene, non lo ha palesemente voluto incontrare.

Perché siete contrari all’austerità?

Siamo contrari all’austerity perché dal punto di vista economico non ha prodotto alcun risultato mentre da quello sociale ha comportato conseguenze catastrofiche. Una competizione tra austerity all’interno di un’unione monetaria (quello che sta avvenendo oggi nell’eurozona dove tutti i paesi si trovano ad attuare politiche di austerità) destabilizza l’unione monetaria stessa e la fa precipitare nella trappola della depressione autoalimentata e della disoccupazione. L’austerity inoltre alimenta l’ultraindebitamento di una nazione come conferma il caso italiano il cui debito pubblico ogni anno stabilisce un nuovo record, e oggi è pari a un quarto del debito dell’intera zona euro. Per questo la Sinistra europea continua a definire il neoliberismo come una minaccia per l’Europa. 

Cosa è avvenuto in Grecia?

In Grecia l’austerità ha causato una crisi umanitaria di proporzioni mai viste in una nazione europea in tempo di pace. Durante il quadriennio del Memorandum (l’intesa con i creditori internzionali Ndr), il mio paese è piombato nella povertà: secondo i dati più recenti dell’Ente statistico greco, più del 34,6% della popolazione vive in condizioni di povertà. Il 18% dei greci non ha nemmeno i soldi necessari per acquistare i farmaci come reso noto dal recente studio dell’Ocse “Society at Glance 2014”.

Cosa pensate di fare? Qual è la vostra ricetta per uscire dalla recessione?

La Sinistra europea chiede sia la fine dell’austerità sia una svolta politica, con un aumento della domanda per effetto di una politica monetaria espansiva, la redistribuzione del reddito a vantaggio dei ceti medio-bassi e investimenti pubblici per rilanciare sviluppo e domanda interna. Il secondo presupposto per un’uscita rapida e definitiva dalla crisi, è il finanziamento di un “New Deal” europeo che abbia come priorità la ricerca, la tecnologia, le infrastrutture e il welfare e che ambisca alla creazione di nuovi posti fissi di lavoro dignitosamente retributi. 

È preoccupato per la cocente sconfitta subìta dal presidente francese François Hollande? È mancata l’unità della sinistra in Francia?

Non sono particolarmente interesato alla sconfitta di Hollande, che considero giustificata. Mi preoccupa invece molto la crescita dell’ultradestra populista di Marine Le Pen, perché costituisce una sconfitta della democrazia e dell’Europa. L’unità della sinistra di cui lei parla è un presupposto importante, ma non basta. L’unità fine a se stessa, nel migliore dei casi produce la somma di percentuali elettorali, non la loro moltiplicazione. Temo che il voto a Marine Le Pen non sia un semplice fenomeno elettorale ma sociale. È una questione europea perché correlata alle politiche di austerità e all’attuale struttura europea. La Ue provoca, per la mancanza di trasparenza e la burocratizzazione del suo funzionamento, l’alienazione del cittadino, se non la sua aperta ostilità. L’Europa deve cambiare per esistere.

Cosa pensa delle riforme annunciate dal premier italiano Matteo Renzi, suo coetaneo?

Non vengo in Italia per dare direttive al governo del paese o al popolo italiano: sanno molto meglio di me quali sono le cose da fare e quali quelle da evitare. Mi limito a ricordare che il film proiettato il Grecia è un film dell’orrore. L’Italia sta uscendo, faticosamente, da sei anni di depressione economica (se si esclude il barlume di ripresa del biennio 2010-11). Per quest’anno la Banca d’Italia preve una crescita asfittica dello 0,7%. Non sono certo quanto possa contribuire allo sforzo un programma di tagli alla spesa pubblica di 34 miliardi di euro per il prossimo triennio. I tagli alla spesa pubblica non sono altro che un eufemismo della parola austerità.

Vittorio Da Rold
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