Vivo e Muoio

Vivo e Muoio
Opera in lieson d’etre con il brano omonimo, tratto dall’ep “asha”, light sounds, Giuseppe D’Angelo

Il sole non filtra nell’animo afflitto,
Cambiamenti e paure tinte di grigio
Dipingono un mare in tempo autunnale,
Mai cheto o sereno, in clamor di tempesta.
Con faro lontano, intermittente di vita,
L’argine al fiume di viva memoria,
Eretto alto dal desiderio di oblio,
Perde centimetri dalle radici alla cima
E più non basta nel turbamento dei sensi
A far scudo al cuore e all’animo affranti.

Nel liquido specchio, tra mille riflessi
Il solito io non par più lo stesso,
In quel tremulo quadro di nuovi orizzonti
Circondato da vuoti mai più colmati
Di andati compagni e perduti amori.
Lo shakespeariano dilemma, tra scelte sicure
Pianta le basi in questo mare di essenza,
E risucchiato violento nel naufragio di scelte
Non è ancora, non più, dopo decenni di essere,
Rimpiazzato con forza dalla realtà della vita.

Vivere, morire, vivere o morire
Non c’è tempo che richiami a tal scelta crudele,
Animo pavido sceglie la morte, illuso la vita,
Ma il naufrago lotta, agguantando il futuro
In indomite acque, non in porto sicuro.

Mi abbandono a te o dolce Speranza
Al tuo sguardo benevolo di vita e di morte,
Integerrimo servo dei Tuoi insegnamenti;
In un mondo che dona solo a chi lotta,
E futuro concede, ma dopo tempesta.

Madre severa, fedele compagna,
Croce e delizia dell’essere umano,
Unica luce nel cielo più nero,
Compassionevole forza, presente e futuro:
Vivo e Muoio, nei tuoi occhi.

Vincenzo Monda
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Assassinio – V. Monda

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Pallide e fredde carni abbandonate al suolo,
Ultimo lascito di un effimera esistenza,
Tra rossi fiumi di torbido sangue
Attendono inermi l’eterna dimora,
Ma è solo legno e macera terra
E buio e silenzio e polvere e vermi,
Ora che il viso non trasuda più gioia
E il celeste sguardo si perde nell’oblio.

Crudo banchetto per spregevoli bestie,
Di un’innocente fanciulla devota alla vita
Questo rimane al regno di morte
Mentre il gracchiare dei corvi rimbomba,
E tormento, pazzia, piacere e sgomento
Assalgono il boia, assassino crudele,
Dall’involucro d’uomo ed essenza di tenebre.

Trasportatemi li, tra scintille e saette,
Quando il centro comanda e la lama la sgozza,
Il sangue sgorga e le bagna la pelle
E si soffoca l’urlo e gorgoglia di morte.
Cos’è che scatta? Dov’è lo sbaglio?
Quando l’uomo non è più, e diviene altro?
Tace il silenzio nei suoi oscuri segreti
E non posso far nulla perché questo si eviti.

Vincenzo Monda
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Non soccomberemo di Vincenzo Monda

La rabbia ribolle in un vulcano ridesto,
Corrosiva pioggia si vendica della civiltà
Ma inerme la terra arida si fa roccia,
Soffocata dal peso di una cruda realtà.

Un cuore d’acciaio ci riempie di luce,
Emozioni montate, abbattute, rimontate
Riempiono i giorni di cruda apparenza.
E risate non suonano tra stereotipate espressioni.

Fiumi di promesse sgorgano da maschere,
Illuminate da fitti lampi stroboscopici
Appaiono orrendamente immoti e immutati,
Mentre i destinatari invecchiano e muoiono.

Urlanti e strazianti silenzi invocano aiuto
Per il tradimento di chi promise amore,
Dagli occhi zampillano lacrime amare
Ora che carezze procurano lividi.

Crogiolati al calore di un’ottima annata
Placidamente pochi gonfiano l’ego,
E gli stomaci si gonfiano ai divoratori d’aria
Affamati di tutto e possidenti di niente.

Ragion di lotta alla mente si occulta
Inganna il fumo dell’invito alla resa,
Ma il cuore pulsa e il pugno può stringersi
E sostenere un arma, un vessillo, una rosa.

Dunque combatti, dibatti, cura e soccorri
Fin quando di fiato ne resta e sangue sostiene,
Finché dall’asfalto fiorisce un germoglio,
E una piccola mano si stringe alla tua
Sorridendo speranzosa alla vita.
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In un antico libro di memorie di Georg Trakl

Sempre ritorni tu, melanconia,

o soave senso dell’anima solitaria.
Si spegne l’ardore di un giorno dorato.

Umilmente si china al dolore il paziente
di armonie risonante e mite follia.
Guarda! Già scende il crepuscolo.

Di nuovo ritorna la notte e geme un mortale
e soffre un altro con lui.

Rabbrividendo sotto stelle autunnali
più profondo ogni anno si china il capo.

 

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Clessidra

Il motore del mondo scandisce l’essenza,
Granelli argentati sibilano tra mura eteree.
Sorrisi di cera celano segni indelebili.

È gelida la stretta che serra la vita,
Vita vissuta, odiata, combattuta
Aggrappata con strazio a residui sfuggenti
Di una passione in fuga che ancor turba i sensi.

Figlia dell’ego e del proprio bisogno,
Cupidigia d’affetto e di stella polare,
In lacrime strappa deserti al cielo,
E il cristallo si incrina e il tempo si ferma.

L’arsura del torto non rilascia la presa,
Che sugge nettare da oscura paura,
E tra gemiti e sangue sequestra altrui vita.

Anima supplica di ritrovare coraggio
Con rabbia e furore si appella alla luce,
Speranza severa in un incubo nero
E sabbia di colpo si tramuta in lino.

Lieve e sottile, a fiumi, libero sgorga
A ritrovar dimora dove tutto riposa,
In attesa dell’ultimo rintocco di tempo,
Così che da vetta si tramuti in sostegno.

 
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Poesia n. 9 di Davide Mastrocinque

ti presterò la mia attenzione
sperando che tu me la renda indietro
ma se pur golosa non c’è passione
che al disgusto del troppo miele
non preferisca assaggiare del vetro
un segreto nulla chiede
se non fuggire la luce del sole
ma la sua prole germoglia
per presentarsi un giorno buio sulla soglia
e rivelarsi agli occhi chiari
fiera di ricordarti
di amarmi senza risparmiarti
finché noia non ci separi

Bacio rubato di Vincenzo Monda

Incatenato e costretto ad un’insana promessa
Pandora moderna, tra cocci di parole,
Fragorosamente riverso speranza nel cuore,
Incurante del monito portato dal vento
Figlio dell’esperienza di storie passate.

Gocce d’amore dorato instillato nel tempo,
Incessantemente infondono ardore,
E la mia anima risplende di una luce immortale.
Rinvigorito,dall’alto mi tuffo nei suoi occhi imploranti
Strappando al destino scelte e rimorsi.

Lo scrosciante infrangersi di catene dialettiche,
Mai state riflesso del volere dell’animo,
Accompagna armonioso il furto legale.
E tutto iniziò, inondato e inondante di vita,
Da una parola revocata e un desiderio fatto reale.

L’adulta di Rainer Maria Rilke

Tutto ciò su lei stava ed era il mondo,
stava su lei con tutto, pietà e ansia, come alberi
che crescono diritti; tutto immagine,
eppure senza immagini, come arca dell’alleanza,

e solenne, come rivolto a un popolo.

E lei lo sosteneva tutto intero,
ciò che vola, che fugge, che è lontano,
l’immenso, il non appreso ancora, calma
come la portatrice d’acqua regge
la brocca colma. Finché a mezzo il gioco,
trasformando e altro preparando,
insensibile il primo velo bianco
sul volto aperto adagio scivolò,

diafano quasi e per non più levarsi,
e chi sa come a ogni domanda una
sola, vaga risposta replicando:
in te, che un tempo fosti bambina, in te.

Fantasie d’uno spirito notturno di Pietropaolo Russo

CANTO 1

Giace. Ella giace su
petali di rosa.
Silenzio.
Profumo di donna
emana la sua pelle.
Geme la notte
e le sue ombre fremono.
Le fronde si scuotono
carezzate dal vento.
Tutto combacia.
In un vizio perfetto.
In un circolo virtuoso.
E la bellezza di lei
che, nuda, si concede alla terra
ha il pregio e il difetto
d’esser raccontata con parole.
Sciocca arma è il motto mio
che tenta di dar forma
a ciò che il sangue fa vorticare
nel mio corpo
come vino. Come vita.
Folle il mio desio di descrivere
a altrui ciò che il mio sguardo culla.
Che mi cadano le mani, ahimè.
Non ne posso fare a meno.
Non posso conservare per me
la sua bellezza d’oro,
il suo candido seno mostrato
ignaro e ingenuo alla luna,
le sue mani adagiate al suolo,
i suoi piedi coperti dalle erbe.
Il suo volto sembra sorridere.
Sogna.
Assisto al sogno di una dea.
E mi sento fiero d’essere uomo.

CANTO 2

D’un tratto ella si desta
come se le sue palpebre fossero
costrette dalla forza delle mie iridi
che insaziabili l’osservavano.
Pudica mi scorge.
Con un timido sorriso mi osserva.
“Chiedo venia, mia dama, e lamento
a me stesso la mia impudenza
che mi rende villano
alle vostre gentili espressioni
che, curiose e severe, dimandano
quale creatura possa essere sì oscena
da spendere il suo tempo a cullare
perversi pensieri innanzi a voi che, nuda, vi concedevate alla natura.
A colei che vi generò.
A colei che sola può vedervi
scevra di pudore.
Ma non sono né meschino
né lascivo. Ho vissuto quanto basta
a conoscere donna e ho provato
le sensazioni più disparate.
Ma alla vostra vista ho tremato,
poiché se temevo sol la morte
e non credevo in nulla,
ora credo nella misericordia
e non ho più paura
dell’angelo dalla lama ruvida e curva.
La vostra visione ha reciso
le mie incertezze e i miei timori.
Mentre dormivate e v’osservavo
ho reso eterni nei miei pensieri
le parole più sincere che il mio essere
abbia mai concepito.”
Ella rimase in silenzio.
Tra l’incerto e il dubbioso
ode le mie parole.
“Ascolterò i vostri pensieri.”
Avrei voluto che parlasse
perché la sua voce era come il cristallo.
Rara e fragile.
“Anima e onore resero me
un fratello del vento iracondo,
sì avvezzo ad essere freddo re
di solitudine, che del mondo
osavo non curarmi, e sprezzante
andavo verso i lidi oscuri
d’un talamo amaro, che gemente
avrei scaldato, e venturi
non m’avrebbero pianto, per l’ultima
delle mie notti; né avi colto
in quella terra nuda, freddissima
una volta, da misero, morto.
A voi rivelo, serena regina
della notte: v’amo come nessuna.”
Muta per un po’ rimane ella
al mio motto. E sedetti con lei,
osservandola in volto.

CANTO 3

Ella mi concede i suoi occhi
non più pudica o timorosa.
Silenziosa, ascolta con me il nulla
pieno d’amore che solo la notte
può offrire.
Lento, il suo volto inconscio,
si avvicina al mio.
La dea mi desidera
almeno quanto desidero io le labbra.
Le sue immortali gote rosse
di piacere risplendono
come due fulgidi soli nelle tenebre.
E le nostre bocche, d’improvviso
s’uniscono in un solo fiato;
come Ermafrodito rimaniamo,
in quell’eterno istante, un sol corpo.
Di donna e di uomo,
uniti da avide rime,
da preziosi cuori in movimento,
da sussulti di pelle d’oca,
da fiammate di languido e candido
piacere.
Non voglio smettere.
Il suo amore è come il presente.
Sospeso tra l’istante trascorso
e quello seguente.
Il suo bacio trascende
l’essenza.
E giaccio. Con ella.
Le sue iridi, viste da vicino
son come lo smeraldo.
La dea arresta il tempo
con il suo sorriso rivoltomi.
E, di nuovo, mi compiaccio
d’esser uomo.

CANTO 4

Danzano i nostri corpi
scanditi da un ritmo antico:
atavico quanto la passione;
immenso oltre ciò che noi miseri
potremmo mai comprendere.
Ma ella non è misera, in quanto dea.
E in questa quieta notte,
madre d’ogni rorida foglia,
consumiamo il tempo in attesa
della rugiada diurna,
ed io pavento
ch’ella possa fuggirmi,
quale creatura non di questo mondo,
eterea e meravigliosa.
Temo che i raggi solari
possano far evaporare
le sue membra
e dissolvere i suoi capelli.
Dannato sia il sole
ché l’amore è figlio d’incesto
tra Tanhatos e Morfeo
e come la morte e il sonno
riconosce come padroni
le stelle e la luna
e ode con le sue orecchie
solo l’ululato dell’antico sovrano,
e il tubare del gufo.
Dannato sia l’istante,
l’ultimo di questa notte.
Chi, innanzi all’amore
nomina il giorno non soltanto parla:
osa.
Un raggio invade il suo volto.
E, come di incanto, ella diventa vento.

CANTO 5

Ho amato una dea,
reale o figlia di fantasia,
non importa.
E son di nuovo solo.
Giace nelle mie memorie
il suon della sua voce rara
e le carezze delle sue morbide mani.
Il languore del suo sinuoso corpo
avvinto al mio come una serpe
di zucchero.
Anima e onore non esistono più.
Non scandiscono più il mio vivere.
Giaccio in questa stanza bianca e vuota:
son solo ma le sue labbra mi baciano.
Ogni notte.
Ogni sera.
Ogni tramonto.
Quando son solo e quando non sogno.
Nel ricordo l’amore per lei
giammai verrà meno
e mai sarò d’essere uomo
sarò stanco.

Storia d’un decaduto e della sua meretrice di Pietropaolo Russo

Chi non giace di un sonno dolcissimo all’ascolto di una melodia non si può
chiamare uomo. E nelle remote note di una notte fonda mi perdo, immaginando la
pioggia e di essere pioggia. Crescono i miei pensieri, gli ultimi dopo il
giorno. L’ennesimo. Ed ella, come sempre, danza innanzi alle mie chiuse
palpebre, volteggiando come una dama d’alta corte e una plebea al contempo.
Solo il diavolo sa quanto io l’amo.
E mi perdo in questa struggente e decadente sera, godendo del privilegio di
non essere bestia, anelando all’eutanasia delle mie sofferenze; sospirando,
lieve e candido, al desio di grevi peccati.
Dove…dove sei? Ti allontani ripetutamente senza mai andartene e l’odore del
tuo corpo mi pervade persino mentre, tra il cosciente e l’assente, m’abbandono
a questo sapore d’assenzio.
Come di incanto il suono s’arresta e mi desto. Cosa sono? Cosa posso essere
senza te? Dove sei, mia dannazione, mia perdizione?
[…]

Un uomo entra nel loco, ricci i suoi capelli, rossi come fiamma, sardonico e
tetanico il suo sorriso fisso. E tutto sembra fermarsi, arrestarsi. S’avvicina
e siede con me.
“Chi sei?” – gli chiesi, perduta nella sua espressione diabolica, nel suo
aspetto d’angelo.
“A chi importa chi sono? Esisto, e questo basta. A te e a me.”
Non ci furono altre parole, e mi abbandonai con un insolito gaudio al mio
mestiere, immondo e antico quanto la guerra.

[…]

In piedi barcollo, sospirando ai vacui venti, lasciando che il mero istinto mi
conduca sui medesimi passi calpestati da una vita. E l’immane notte mi volta le
spalle, e l’incessante pioggia non spegne il mio ardore. E’ buio. E’ morte.
Come un ectoplasma giungo ove m’innamorai del demonio. Pronto a aprire con le
chiavi della perdizione il cancello antico e minatorio dell’inferno.
E vedo le dame servire, sconce, vini inebrianti e di pessimo sapore agli
avventori. Vecchi, giovani, miserabili, nobiluomini: in quel ricettacolo non vi
era spazio per alcuna distinzione. Tutti adepti, tutti veneranti il demonio,
tutti persi, tutti ammaliati.
Carne sudicia, dal fascino irresistibile, di fanciulle con lo sguardo spento,
tutte uguali, veniva venduta come al mercato.
Ed egli era lì, rosso, con le mani tra i suoi capelli. Odio, rabbia, gelosia,
furore. Il mio sguardo perse colore, le mie iridi furono inghiottite dalle
pupille d’un mastino furioso. M’avvicinai alla mia donna, alla mia dama, alla
mia meretrice, al mio tesoro, con il grandioso e meraviglioso e avido desiderio
di strapparle la vita, di portare con me la sua anima, di divorarne l’essenza.
Solo strappandolo avrei protetto quel fiore dalle intemperie e dalle immonde
mani altrui.
Il giovane si girò e mi sorrise, come se mi avesse riconosciuto in qualche
modo. E capii. Capii ogni cosa. Quel riso sardonico valeva più di mille
parole.
Puntuale, era giunto. A riscuotere ciò che gli avevo promesso.
Non smetteva di sorridere e io capii. Mi avvicinai, e con un coltello,
languido, sensuale, dolce le aprii il collo. Nei miei occhi fissi i capelli
rossi. Il sangue sgorgò senza che ella se ne accorgesse. Morì prima di
vedermi.
Salvai l’anima che m’ero venduto, scambiandola con la sua. E m’apprestai a
vivere il resto dei miei giorni in una tormentata solitudine, con lo sporadico
e piacevole sorriso d’aver condiviso l’aroma della pelle d’una donna con
qualcuno che non era di questo mondo.