Il mefitico alito pestilenziale della civilità e Jim Morrison

La contraddizione ontologica, e storica, è quella tra bisogni individuali e denaro. È questa dialettica negativa, che pone il denaro come antitesi dell’uomo. Ma qual è la sintesi? Se il possesso del denaro aumenta la miseria dell’uomo, e per questo la sua potenza, cosa crea la ricchezza dell’essere?

Se la storia del conflitto tra avere ed essere è la storia del conflitto tra società ed individuo, come creare nuovi modi di produzione? “Il raffinamento dei bisogni e dei loro mezzi produce un imbarbarimento animalesco”: e così, nel cerchio della vita, secondo i più sinuosi movimenti ciclicamente a-temporali, il progresso definisce, e costituisce, l’animalità dell’uomo. “Il mefitico alito pestilenziale della civiltà” inquina e sporca l’ontologia vera della specie. Ma la teoria della popolazione prevede questo. All’aumento della ricchezza ed allo sviluppo tecnologico corrisponde un aumento della popolazione, a cui consegue, di necessità, un generale imbrutimento sociale ed individuale. Il disprezzo della vita è prodotto dall’amore per la vita. E l’amore per la vita è prodotto dall’amore della morte. La morte è il feticcio della specie, la cheerleader della società.

Il denaro conduce allo “sfruttamento universale dell’essere sociale dell’uomo”. E l’alienazione regala dignità di esistenza al denaro, “divinità visibile e meretrice universale”.

Il denaro guida la vita e l’economia politica è la “scienza della ricchezza”. A differenza del mondo ottocentesco di Marx però la ricchezza non sta più nel risparmio, ma nel consumo. È paradossale che Marx pensasse che gli economisti stupidi avessero dimenticato che “se non si consumasse non si produrrebbe”. Marx consumista? È stupido, infatti, chi dimentica come l’essenza del capitalismo sia cambiata nel corso di due secoli e come, di conseguenza, la destinazione del capitale sia essa stessa cambiata. Il classico rapporto capitalista-operaio è svanito in una bolla finanziaria. Il grosso del capitale non è più risparmiato, ma consumato. E questo vapore liquido defluisce in pochi fiumi monopolistici. Così l’oceano del capitale investe e modella ogni continente. Il consumo è l’essenza odierna del capitale così come la finanza è l’oceano del monopolio. Ma il problema della sovrapproduzione è il problema della popolazione. Ci sono troppi uomini.

E così la teoria della popolazione si evolve in morale religiosa. In virtù del fatto che “anche l’opposizione tra economia politica e morale è soltanto apparenza”, l’espressione estrema del capitale del XXI secolo è la camorra (https://danaeblog.com/?s=gomorra+e+marx).

Ma come sostituire l’individuo alla specie? La necessità biologica della specie non è forse essa stessa l’essenza dell’individuo? Non è forse l’individuo una “realizzazione del proprio non-essere”? Egli vive la vita sociale e la propria vita di bisogni ha luogo nel sogno…E il mondo consumista, anti-ontologico, ci fa dire, all’unisono con Jim Morrison, “sogna perche’ nel sonno puoi trovare quello che il giorno non ti puo’ dare…”.

Raffaele Vanacore
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Rustin Cohle e l’alienazione sociale

Se l’essenza reale dell’uomo, in quanto essere della specie, è la morte, la sua natura si manifesta nell’alienazione. Ma quest’alienazione – per Marx prodotta dalla genesi della proprietà – risulta in realtà ascrivibile alla necessità stessa dell’uomo di vivere in società come massima espressione della selezione naturale. A questo punto, come fa questa necessità storica a farsi sensibile?

È ipotizzabile un “organo sociale”, “organo di una manifestazione vitale”? La natura dell’uomo, o meglio la genetica dell’essere umano, ha probabilmente previsto l’integrazione della capacità sociale nel genoma umano. In altre parole, l’alienazione stessa è insita nella specie umana, e quindi nell’uomo.

Come conciliare dunque questo conflitto, quasi eracliteo (“tutto avviene secondo contesa”…) tra la natura volta alla libertà dell’uomo e quella incatenata all’alienazione dell’essere sociale? In questa sorta di conflitto a fuoco tra volontà di potenza (e di libertà…) e tra volontà di soggiogamento prevale la staticità, l’anti-progresso. In sostanza, l’ontologia umana si rivela nella sua schiavitù alla specie. E la bestialità dell’uomo, in quanto – inevitabilmente – essere biologico, definito dalle qualità della specie stessa, manifesta la sua realtà nella menzogna. È il cervello umano, che si esplicita come coscienza, a negare a se stesso, ed al mondo, la sua corsa verso la morte, la sua inutilità individuale ed il suo incatenamento ai dettami della specie (strutturata, come visto, in società secondo la selezione naturale). E la vita stessa è la più grande menzogna. Rustin Cohle (detective e filosofo protagonista di True Detective) fa bene a pensare “che la coscienza umana sia stata un tragico errore dell’evoluzione. Siamo diventati troppo consapevoli di noi stessi”…

Errore di Marx è stato quindi quello di considerare la proprietà privata come generatrice dell’alienazione. Ma questa è talmente insita nella naturale animalità dell’uomo, che si può ipotizzare che in un tempo remoto, in cui l’uomo si doveva ancora emancipare dalla vita in branco e la coscienza individuale era ancora inespressa, l’alienazione individuale e la dipendenza dalla specie erano le modalità di vita, e di sussistenza, della specie umana. Non è, insomma, la proprietà privata ad alienare l’individualità di un gruppo di api o di formiche. È la natura stessa che le fa vivere per la specie.

Ora posto che la specie domina ancora la natura dell’uomo e che il miglior mezzo di perpetuazione della specie umana è la società, come fa la struttura sociale a trasmettersi agli individui? È proprio questo il punto: in virtù di un successo selettivo, la volontà di soggiogamento sociale si trasmette geneticamente ad ogni individuo. E questo è lo scacco dell’individualità, l’uomo è oggetto sociale. La soppressione della proprietà privata non porterebbe, in  alcun modo, alla fine dell’alienazione, come la distruzione di un alveare non porterebbe, in alcun modo, alla fine della vita in gruppo delle api. In pratica, come già Marco Aurelio aveva intuito, “ciò che non giova all’alveare non giova neppure all’ape”: di riflesso, ciò che non giova alla società non giova all’uomo. Ma ciò che giova alla società non sempre giova all’uomo. E questa è la contraddizione decisiva tra il Super-uomo e la Bestia. La corda è tesa sull’abisso dell’inconciliabilità tra libertà e società.

Ma, come detto, il punto centrale della questione è che la necessità dell’integrazione nella società è insita nella coscienza dell’individuo e trasmessa geneticamente alle generazioni successiva. In pratica, è frutto della selezione naturale e passa, geneticamente ed in maniera circolare, alle generazioni successive. Questo genotipo sociale, inevitabilmente riprodotto nella nostra psiche, governa a priori la nostra vita, rendendo l’alienazione parte integrante della vita in società. Se il socialismo “comincia dalla coscienza”, è conseguente che le modalità con cui la società struttura la nostra psiche vanno cambiate. L’impressione sensibile della società su di noi, che alimenta con vigore l’alienazione e si plasma tramite meccanismi epigenetici, va interrotto. Se “il comunismo non è come tale la meta dello svolgimento storico”, nuove  forme di società, anti-alienanti, vanno ricercate e strutturate. Nuove mete vanno ricercate.

Ma insomma diciamoci la verità il movimento circolare è al verità dell’uomo e, sempre con Rustin Cohle, “il mondo è un cerchio piatto. Tutto quello che abbiamo fatto o faremo, lo rifaremo ancora e ancora e ancora e ancora”…

Raffaele Vanacore
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Prostituzione generale e critica del comunismo

L’analisi del rapporto tra individuo e proprietà privata – che, in sintesi, è il rapporto di prostituzione del capitalista – rivela la sua sostanziale importanza nello studio del rapporto tra la società e la natura. Insomma, la questione del socialismo è la questione della specie. L’uomo come particolare esiste solo come entità biologica nella totalità della specie; e tale entità si scontra, bruscamente, con quella rete sociale, che plasma non solo l’individuo come parte della società, ma anche la coscienza biologica dell’individuo. In altre parole, qual è il rapporto tra l’uomo e la natura, tra la specie umana e la natura? Inoltre, in questo contesto, quale ruolo ha la proprietà privata? Infine, poste le basi del socialismo biologico (e per questo scientifico), ha questo un ruolo nella società odierna?

A creare una spaccatura profonda nella società – in una sorta di Big Bang sociale – è stata l’emancipazione del capitale dal lavoro, ossia l’esclusione della proprietà privata dal lavoro. È la contraddizione tra il fatto che il lavoro esclude la proprietà privata e che la proprietà privata esclude il lavoro a costituire il più grande atto d’accusa alla prostituzione sociale. Si è passati, infatti, “dal rapporto di matrimonio esclusivo col proprietario privato al rapporto di prostituzione generale con la comunità”. In pratica, non solo il rapporto stesso tra capitale e lavoro si basa su di un contratto simile a quello del cliente e della prostituta, ma anche – in virtù di uno sballato e disarticolato sistema di tassazione – l’economia statale è sfociata nella prostituzione generale.

È l’apoteosi del comunismo rozzo attuata mediante le tasse a costituire l’antiprogresso sociale. Se Marx, infatti, era certo dell’evoluzione di un comunismo umanistico a partire da un comunismo rozzo (il quale, “in quanto nega ovunque la personalità dell’uomo, non è proprio altro che l’espressione conseguente della proprietà privata, che è espressione di questa negazione”), il mondo odierno ha segnato un paradossale ritorno a questa forma di comunismo rozzo. Grazie ad una tassazione eccessiva e regressiva, che estrae proprietà pubblica dalla proprietà privata, “tutti sono operai”. In pratica, il fatto che dalla proprietà privata, che si è formata tramite l’estrazione del capitale dal lavoro, si estrae a sua volta capitale pubblico tramite un eccesso di tassazione, ha creato un mostruoso e tentacolare Leviatano sociale che preleva ai più e dà i pochi. È la sconfitta di Robin Hood.

È l’arricchimento dei pochi, tipicamente evidente negli Stati comunisti quali Russia e Cina, ma oggi sempre più non solo in alcuni Paesi europei come proprio l’Italia, ma anche negli USA, a testimoniare il ritorno di un rozzo e vorace mostro economico, che schiaccia i vari Robin Hood e Little John e divora una lauta parte delle finanze pubbliche. In un mondo in cui “l’attività degli operai viene estesa a tutti gli uomini”,  non è più il capitalista che sfrutta l’operaio, ma è il Leviatano economico che sfrutta tutti gli uomini, avvantaggiandone pochissimi.

La biologia del socialismo – ed il nostro interrogativo, è ancora possibile il socialismo scientifico oggi? – è evidente considerando il rapporto tra l’uomo e la donna, il quale in ultima analisi è il rapporto dell’uomo con la sua specie. Se infatti il matrimonio è l’emblema di una “proprietà privata esclusiva”, “la comunanza delle donne è il mistero rivelato di questo comunismo ancora rozzo e materiale”. E certamente Marx aveva ben in mente la commedia “Le donne al Parlamento” di Aristofene quando stroncava questo comunismo rozzo:

“Il comunismo non è che il compimento di questa invidia e di questo livellamento partendo dalla rappresentazione minima. Esso ha una misura determinata e limitata. Proprio la negazione astratta dell’intero mondo della cultura e della civiltà, il ritorno alla semplicità innaturale dell’uomo povero e senza bisogni, che non solo non è andato oltre la proprietà privata ma non vi è neppure ancora arrivato, dimostrano quanto poco questa soppressione della proprietà privata sia un’appropriazione reale [ultimo corsivo mio]”.

Orbene, cosa fare contro il riemergere di questo comunismo rozzo, resosi manifesto come comunità in veste di capitalista generale? In una sorta di feudo del capitale il mondo va ristrutturandosi, paradossalmente e secondo i più goffi dettami del comunismo rozzo, come Leviatano capitalista che estrae capitale dalla proprietà privata stessa, creando così enormi diseguaglianze sociali. Il socialismo biologico è invece l’opposto: è recupero dei bisogni individuali dell’uomo. Ed il suo più grande errore è stato la pretesa che il miglior modo per la soddisfazione dei bisogni fosse l’eliminazione della proprietà privata.

Infatti, partendo dall’analisi del rapporto uomo-donna, emblema del rapporto individuo-specie-natura, Marx chiarisce, con gran vigore, che obiettivo del socialismo biologico è “la reintegrazione o il ritorno dell’uomo a se stesso”. In pratica, errore di Marx era stato quello di pretendere che l’alienazione dell’uomo fosse un risultato della struttura sociale fondata sulla proprietà privata, mentre, in realtà, è la società stessa a costituire la più profonda radice dell’alienazione.

In altri termini, l’uomo, in quanto necessariamente essere sociale, è necessariamente alienato da se stesso e dai suoi bisogni. Egli, consapevole di essere “la soluzione all’enigma della storia”, ha il compito di porre se stesso al centro del programma politico della storia. Ma errore di Marx, che pure poggia quasi per intero le sue teorie socio-economiche su quelle socio-biologiche di Darwin, è stato il non aver compreso come la natura abbia strutturato la specie umana in una società, miglior strumento per la riproduzione e la conservazione dell’essere umano, al prezzo di una svalutazione del complesso di bisogni individuali. In pratica, è la società al centro della politica della storia.

Pur avendo infatti intuito questo processo di selezione naturale (“la morte è la dura vittoria della specie sull’individuo”), che in pratica favorisce lo sviluppo della società come miglior mezzo di propagazione della specie (“la società è l’unità essenziale dell’uomo con la natura), Marx sposta nettamente il piano della ricerca sociale da quello biopolitica a quello meramente economico, fraintendendo l’alienazione come conseguenza particolare di un certo mezzo di produzione piuttosto che come risultato dell’integrazione dell’individuo nella rete sociale.

Il socialismo biologico – o comunismo umanistico – pur giusto negli obiettivi (riportare l’uomo ed i suoi bisogni al centro della politica) ha completamente toppato nei mezzi di raggiungimento di questi fini. Ed anzi, proprio lì dove questi mezzi sono stati proposti (URSS, Cina, etc.) i bisogni dell’uomo sono stati maggiormente calpestati. Se la lotta politica era, giustamente, “tra libertà e necessità”, nei paesi “comunisti” a soccombere è stata proprio la libertà.

A questo punto, giungiamo alla domanda cruciale: può il socialismo biologico avere un ruolo oggi? E qui ritorniamo alla questione del Leviatano capitalista per rispondere che sì, il socialismo biologico, con il suo fondamentale obiettivo della soddisfazione dei bisogni individuali dell’uomo e del “ritorno all’uomo” ha ancora un ruolo politico fondamentale; tuttavia, i mezzi di raggiungimento di tali obiettivi vanno modificati.

Infatti, non solo laddove la proprietà privata è stata abolita ne è conseguito un abbattimento delle libertà individuali, in contrasto con gli obiettivi del socialismo biologico stesso, ma oggi anche nel mondo occidentale lo sviluppo di un vorace Leviatano capitalista-statale (nella più aberrante delle fusioni economiche…) sta riconducendo la società a quel comunismo rozzo, in cui – in virtù di un “livellamento” verso il basso – il risultato netto è l’impoverimento della maggioranza della popolazione.

Compito della ricerca sociale è la creazione, dunque, di sistemi economici e politici che contrastino questa deriva e riportino l’uomo e i suoi bisogni al centro del mondo…

Raffaele Vanacore
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Proprietà privata e cosmopolitismo

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Il rovesciamento ontologico dell’esistenza umana avviene nel momento in cui la proprietà privata, da essenza oggettiva, diviene soggettiva. E l’essenza soggettiva della proprietà privata è il lavoro. Essa, infatti, è non più uno stato esterno all’uomo, ma un fattore cognitivo, ossia interno alla coscienza dell’individuo. Adam Smith, il “Lutero dell’economia”, ha svelato come essa costituisse una parte della soggettività individuale. In altri termini, così come Lutero rivelò l’essenza interna della religione, Smith ha rivelato l’essenza interna della proprietà privata. Il lavoro alienato, che crea la proprietà privata, e quindi la coscienza dell’individuo, forma una sorta di neurobiologia della proprietà privata, che risulta così non estranea all’uomo, ma ben plasmata nella rete sinaptica, individuale e sociale, dell’uomo. Ed in questo modo l’economia politica diviene “la negazione dell’uomo”:

“L’economia politica comincia apparentemente col riconoscimento dell’uomo, della sua autonomia, della sua libera attività, ecc. Quindi, trasferendo la proprietà privata nell’essere stesso dell’uomo, non può più essere condizionata dalle determinazioni locali, nazionali, ecc., della proprietà privata, considerata come un essere esistente al di fuori di essa, e pertanto sviluppa un’energia cosmopolitica, universale, che travolge ogni barriera ed ogni vincolo per porsi al loro posto come l’unica politica, l’unica universalità, l’unica barriera e l’unico vincolo”.

In pratica, il più grosso effetto collaterale dell’incorporazione della proprietà privata nella coscienza  è la fine della libertà dell’individuo. Se l’uomo è sinapticamente  predisposto alla proprietà privata, una fuga non è pensabile, se non nel senso di una fuga dalla libertà (Erich Fromm). Peraltro, non solo le determinazioni locali (e politiche) non hanno più senso in un contesto razionalizzato dalla coscienza della proprietà privata e globalizzato dagli sviluppi neo-tecnologici, ma – in virtù di una cosmopolitizzazione del capitale – la vita stessa dei popoli è la vita del capitale. Se infatti la proprietà privata è incorporata nella coscienza individuale, emerge una sorta di specie-capitale, che – secondo i più classici meccanismi della selezione naturale – tende all’eliminazione dei luoghi a-capitalistici ed allo sviluppo di quelli a più alto tasso di capitale, secondo la regola dello sviluppo del più capitalista.

Se il cosmopolitismo, con l’evaporazione del potere politico, si identifica con la democrazia neo-liberale del capitale, dove il “demos” non è più il popolo, ma la proprietà privata in quanto tale, il lavoro, che crea la proprietà privata, e quindi il demos, è l’essenza stessa del mondo moderno. In pratica, “il lavoro è l’unica essenza della ricchezza”.

Tuttavia, mentre in passato il lavoro era il mezzo di soddisfacimento dei bisogni (ad esempio con l’agricoltura), con l’introduzione della proprietà privata, il lavoro si è sottomesso ai servigi di questa, creando tanto più proprietà privata quanto più lavoro si produceva e così via, in una darwiniana e naturale selezione del capitale. Il capitale così estratto (sotto forma di proprietà privata) colonizza la coscienza dell’individuo, rendendola sottomessa alla proprietà privata. E l’individuo prepara la coscienza all’invasione del capitale.

Raffaele Vanacore

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Gomorra e Marx

L’intimo rapporto dell’uomo con se stesso è, nella cultura africana, totalizzante: egli è se stesso in quanto parte imprescindibile della natura. Egli è naturalmente emancipatorio: l’emancipazione di sé corrisponde a quella della natura. Ed egli si compie nella natura: la natura è la sua libertà. Nella cultura capitalista, al contrario, il rapporto dell’uomo con se stesso è, in virtù dell’alienazione prodotta dal lavoro, svalutato. E questa svalutazione costituisce l’essenza stessa dell’uomo capitalista. Egli è una “merce” e vive per il capitale. La sua unica funzione è la creazione di capitale: di conseguenza, secondo l’ “etica del lavoro”, il non lavorare è una perdita di capitale, e quindi della sua essenza. L’uomo banconota (o bancomat…) è uno zombie.

È il paradosso che l’uomo si trova schiacciato tra i propri primitivi bisogni e le sue artefatte (dalla società capitalista) necessità a costituire l’essenza, spesso inconciliabile, dell’individuo capitalista. Egli sente i propri bisogni, ma li svende per il salario e, paradossalmente, è il lavoro stesso che – seppur nato per soddisfare i bisogni – costituisce il più impervio ostacolo alla loro realizzazione. Il lavoratore soddisfa i bisogni della società ed in pratica “il capitale esiste al posto suo”. È il capitale a definire l’esistenza e dove non c’è capitale non c’è esistenza. È così che, in assenza di capitale, la vita risulta superflua e guerre e devastazioni giustificate. Un territorio non capitalista è inutile ed il male dell’inutilità a-capitalista va sradicato.

A dover essere eliminati, per la società capitalista, tuttavia, non sono solo questi non-luoghi di non-capitale, ma anche tutte quelle esistenze “inutili” di individui non capitalizzabili. È il caso dei vagabondi, dei miserabili, dei disoccupati… Queste sono esistenze ontologicamente inutili ed eticamente disprezzabili. In pratica, il disoccupato è l’emblema della distorsione sociale capitalista: colui che non si aliena da se stesso èmassimamente e socialmente alienato. La scelta è tra l’alienazione da sé e l’alienazione dalla società. Ed i grandi beni della società capitalista rendono preferibile la prima.

In pratica, il lavoratore è una merce, assimilabile, ad esempio, ad una tanica di benzina: il salario è il prezzo da pagare affinché l’utilizzo di un certo mezzo (la benzina-il lavoratore) consenta l’attivazione di una certa struttura (la macchina-la società capitalista). Il posto per taniche di benzina inutilizzate non c’è, così come per colui che non lavora c’è solo il regno dello sdegno.

Peraltro, posto che lo scopo del capitale non è quello di produrre il maggior numero di lavoratori possibili, ma piuttosto quello di massimizzare il profitto, è evidente come l’”unico principio” dell’economia politica è il rapporto inverso tra salari ed interessi del capitale. Laddove gli interessi del capitale aumentano, i salari diminuiscono e viceversa. Nel primo caso, si è in presenza di un massiccio spostamento di ricchezza dal basso verso l’alto; nel secondo, assai più infrequente, lo spostamento avviene dall’alto verso il basso.

Il capitale, emancipatosi e fattosi “astratto da ogni altro essere”, vive solo per se stesso: l’economia reale è un povero intralcio all’economia astratta, ossia all’ arte del capitale. Così come l’astrattismo di Kandinskji trascende la forma ed i contenuti, giungendo ad una primordiale identità dell’essenza con se stessa, il capitale trascende la forma – ossia lo spazio-tempo – ed i contenuti – ossia l’economia reale – e giunge a quella concreta nebulosa che è la finanza. Astratto da sé, in un non-luogo spazio-temporale, il capitale proclama la propria ancestrale indipendenza dal mondo delle cose. Ed in tal modo sottomette l’immanenza umana.

Le distinzioni tra capitale mobiliare ed immobiliare saltano bruscamente: esso è eimmobiliare e mobiliare. La fosca unione è evidente nel clan Savastano di Gomorra: sono non solo le immense rendite mobili (ossia liquide) a costituire, ormai, l’espressione capitalista, ma anche gli immobili, spesso in luoghi lontani, non conosciuti neanche dai proprietari. E così l’intreccio tra capitale e camorra è compiuto, la massima espressione capitalista, ossia del mondo “civilizzato”, è la criminalità organizzata, espressione, in un’ottica “capitalista”, di un mondo “arretrato”.

È il paradosso che l’illegalità è legalizzata, in virtù di un’arte astratta del capitale – che estrae dal cilindro il coniglio dei fondi della camorra – a costruire l’etica del capitalismo del XXI secolo. In un mondo in cui la legge del capitale, ossia del denaro, impera, il resto è illegale, ma ciò che riguarda il capitale è legale. La verità del mondo moderno è che la finanza è camorra, anzi un monopolismo delle organizzazioni criminali, alleate sotto le insegne politiche del denaro. È l’apoteosi del “prode, fantastico e furbo mariuolo”.

Raffaele Vanacore
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Marx e la servitù dell’alienazione

Dopo aver dimostrato come – a causa del fatto che “una gran parte della proprietà fondiaria cade nelle mani dei capitalisti e così i capitalisti diventano ad un tempo proprietari fondiari” – risultano solo due classi sociali, la classe dei lavoratori e la classe dei capitalisti, e dopo aver dedotto come “il salario ridotto al minimo deve essere ancora ulteriormente ridotto per sostenere la nuovo concorrenza”, fatto che “conduce poi necessariamente alla rivoluzione”, Marx – nel capitolo “Il lavoro estraniato” – delinea quella che è la condizione del lavoratore. L’economia politica (o la politica economica…), difatti, non ha altro fine se non quello di indagare la condizione sociale, e per questo individuale, dell’uomo. Ora, dato che la società si divide, in somma parte, in due categorie – quella dei proprietari capitalisti (in altre parole, di coloro che vivono senza necessità di lavoro) e quella dei lavoratori non proprietari (condizione oggi, in realtà, estendibile anche ai piccoli proprietari, in somma a coloro che necessitano di lavoro per vivere) – l’analisi del rapporto tra queste due categorie si impone come essenza dell’analisi sociale stessa. Orbene, constatato come la deriva monopolistica ed accaparratrice socio-politica degli ultimi decenni, ha condotto, senz’ormai alcun’ombra mistificatoria, ad una società siffatta, l’analisi marxiana risulta di decisiva importanza non solo per comprendere i suddetti rapporti sociali, ma anche per contrastare questa stessa deriva ed elaborare delle alternative economico-politiche.

Ecco dunque il punto: l’alienazione. Ma da dove nasce questo concetto? È forse questo un concetto di natura economica? O forse è questo un concetto individuale? Seguendo Feurbach (Tesi su Feurbach), Marx aveva scoperto come egli “risolve l’essenza religiosa in essenza individuale”: in altre parole, “gli uomini alienano il loro essere proiettandolo in un Dio immaginario, solo quando l’esistenza reale nella società classista proibisce lo sviluppo e la realizzazione della loro umanità” (Reale ed Antiseri; corsivo di chi scrive)In pratica, dal momento che l’alienazione religiosa è alienazione individuale, occorre modificare le condizioni sociali che creano l’alienazione individuale, sradicando di conseguenza l’alienazione religiosa.

Posto come obiettivo lo sviluppo e la realizzazione di ogni uomo, ne deriva, quindi, la necessità di modifica di quelle condizioni socio-economiche che creano l’alienazione individuale. Ed in larga parte tali condizioni si basano sul lavoro alienato. È in questo contesto che risulta estremamente chiaro come “la religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di situazioni in cui lo spirito è assente. Essa è l’oppio dei popoli”.

In sostanza, la società crea l’alienazione individuale attraverso il lavoro alienato e l’individuo trasla la propria alienazione individuale in alienazione religiosa, trovando conforto in un Dio ed in un aldilà gradevoli. Ma come la società crea il lavoro alienato?

In primis, “quanto più l’operaio si consuma nel lavoro, tanto più potente  diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si crea dinnanzi, tanto più povero diventa egli stesso, e tanto meno il suo mondo interiore gli appartiene”; in secundis, “quanto più l’operaio si appropria col proprio lavoro del mondo esterno, della natura sensibile, tanto più egli si priva dei mezzi di sussistenza”. Quindi, l’operaio, quando lavora, non solo crea prodotti di lavoro a lui estranei, ma si riduce anche come essenza fisica, in quanto riduce i mezzi di sussistenza: in pratica, il lavoro è “un mezzo per soddisfare bisogni estranei”.

Ed a questo punto  si chiarisce il rapporto tra alienazione religiosa e lavoro alienato: infatti, “come nella religione, l’attività propria della fantasia umana, del cervello umano e del cuore umano influisce sull’individuo indipendentemente dall’individuo, come un’attività estranea, divina o diabolica, così l’attività dell’operaio non è la propria attività. Essa appartiene ad un altro; è la perdita di sé”.

Difatti, considerando che la natura è il corpo inorganico dell’uomo, l’appropriazione – da parte dell’uomo – della natura, con la conseguente riduzione dei mezzi di sussistenza, ossia della natura stessa, esita in una riduzione dell’essenza stessa dell’uomo. In altre parole, seguendo l’emergente – e così influente – teoria darwiniana, Marx può affermare che “il lavoro fa della vita della specie un mezzo della vita individuale”: poiché la vita, infatti, appare come “mezzo di vita”, il lavoro alienato fa “della sua essenza soltanto un mezzo per la sua esistenza”.

In tal contesto ontologico-esistenziale un ruolo primario è giocato, in maniera decisiva, dalla coscienza: è questa, infatti, che, rendendo l’uomo consapevole della propria appartenenza alla specie, lo fa libero. Ed il lavoro libero è l’ “oggettivazione della vita dell’uomo come essere appartenente ad una specie”. Al contrario, il lavoro alienato, privando l’uomo dell’oggetto della sua produzione (ossia, come detto sopra, diminuendo di fatto la quantità di beni naturali disponibili per la sua sopravvivenza in quanto appartenente ad una specie), e quindi spogliandolo della sua coscienza di individuo, “gli strappa la sua vita di essere appartenente ad una specie”.

A questo punto, come l’individuo alienato religioso di Feurbach è un essere a-storico, così l’individuo alienato tramite il lavoro di Marx è un essere a-specifico, e per questo a-storico: la sua dimensione sociale si perde nell’alienazione eretta a sistema. La sua vita, ossia il suo vissuto interiore (inconscio, si sarebbe poi detto…), che è la sua verità, ossia la sua libertà, è sacrificata sull’altare della società, che esige l’alienazione come mezzo di perpetuazione della sua esistenza all’interno della società. E la coscienza individuale, sconfitta, si adegua: l’uomo non vive più la propria vita, ma alienato da se stesso, vive la vita della società. La sua coscienza è stata colonizzata da quella della società. Non c’è più biologia individuale, ma solo biologia sociale.

La differenza con l’alienazione religiosa di Feurbach è che l’uomo alienato di Marx – poiché “i miracoli divini divengono superflui a causa dei miracoli dell’industria” – non rinuncia al proprio godimento per un’esistenza nell’aldilà; egli, al contrario, rinuncia, per garantirsi la sopravvivenza, al godimento in questa vita per un altro uomo. Ed è questo stesso uomo che, appropriandosi del plusvalore, ossia del prodotto netto sottratto alla natura, e quindi agli altri uomini,  ed erigendosi a razionalità sociale, e cioè costruendosi come coscienza dell’individuo, vive il plusvalore di godimento sottratto agli altri uomini.

Il capitalista è padrone non solo del plusvalore, e quindi del reddito, ma anche del godimento, e quindi della vita stessa del lavoratore. E quanto più si impadronisce della vita del lavoratore, tanto più plasma la coscienza dell’individuo, il quale, in tal modo, non vive più la propria condizione come un’alienazione, ma – addirittura – come l’esistenza desiderabile. Al reale godimento biologico subentrano godimenti, pur altrettanto biologici, ma fasulli, che hanno il precipuo compito di maschera la condizione di asservimento della maggior parte degli uomini. Così come gli dei, per Feurbach, non sono la causa dell’alienazione religiosa, ma la conseguenza, così la proprietà privata è non già la causa del lavoro alienato, ma la conseguenza. La proprietà privata è il prodotto del lavoro alienato, la realizzazione di questa alienazione.

Il fine dell’alienazione sociale, attuata tramite il lavoro e manifestatasi tramite la proprietà privata, è la selezione naturale della specie umana: ma questa selezione è falsata, in-naturale. Chi ha la capacità di alienare gli altri, sfruttando il lavoro ed anche le loro conquiste scientifiche, si impossessa sempre più delle risorse, con il rischio non solo di avere una perdita netta di risorse, ma anche di sfociare nell’impossibilità della natura a soddisfare i bisogni della specie umana. Ecco che il socialismo marxiano è “scientifico”, lo è in quanto biologico.

Rifiutata ogni possibilità di aumento dei salari, in quanto essi stessi espressione della proprietà privata, il fine ultimo della società va posto nell’emancipazione della società dalla proprietà privata, in quanto “in questa emancipazione è contenuta l’emancipazione universale degli uomini”. Questa utopistica fine della selezione naturale della specie umana basata sulla proprietà privata è il fine del socialismo.

Raffaele Vanacore

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Marx, i monopoli, la crisi dei debiti e Whatsapp

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Continuando l’analisi dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, che tanta importanza hanno avuto per lo sviluppo del pensiero – economico-filosofico appunto – di Marx e che di notevole attualità si presentano oggi, ci imbattiamo – precisamente nel secondo capitolo, “Profitto del capitale” – nella concezione del capitale (concezione che sarà poi il fulcro dei successivi lavori di Marx) e nello studio dei suoi sviluppi sulla società – ottocentesca nella disamina marxiana, odierna nella nostra. Quindi, posto che “il capitale è il potere di governo sul lavoro e sui suoi prodotti” e che “il capitalista possiede questo potere, non in virtù delle sue qualità personali od umane, ma in quanto è proprietario del capitale”, ricordato che questa proprietà è – in larghissima misura – ereditaria, ne deriva una struttura sociale pericolosamente sbilanciata verso il capitale, il quale – come detto – si trasmette al più per eredità. In pratica, dato che “il potere di governo sul lavoro e sui suoi prodotti” si fa potere sui mezzi di produzione e quindi sulla società – in altre parole, potere politico – è chiaramente evidente come l’interesse del capitalista è preponderante rispetto a quello dei lavoratori, al prezzo di enormi e crescenti disuguaglianze ed ingiustizie sociali.

Infatti, dal momento che il capitalista “non ha alcun interesse ad impiegare una quantità di fondi [per pagare i salari] grande piuttosto che una piccola” – in altri termini, dato che il capitalista ha l’interesse ad estrarre il maggior profitto possibile dal suo capitale – oggi che da un lato la globalizzazione ha portato ad una riduzione del livello salariale medio (con il corollario che è più conveniente esportare la produzione dove il salario è più basso, con la conseguenza dell’aumento del numero dei lavoratori in aree a basso salario e l’ulteriore diminuzione del livello salariale medio) e dall’altro la tecnologia ha ridotto non solo i costi di produzione, ma anche il numero di lavoratori necessari per un certo livello produttivo, il rischio è che la disoccupazione ed i livelli calanti del salario da ciclici divengano sistemici.

Ma il quadro – a dir il vero desolante perché rispecchia il sistema sociale imperante – è ancor più aggravato dal fatto che – data la necessità da parte del capitalista di estrarre il maggior profitto possibile dal suo capitale – egli trova il sistema più redditizio di guadagno nella finanza piuttosto che nella produzione stessa, con il risultato non solo di una ulteriore riduzione dei posti di lavoro, ma anche della sottrazione di denaro circolante dall’economia reale. L’esempio più caratteristico – citato in “Finanzcapitalismo” di L. Gallino – è quello delle imprese automobilistiche che si son trasformate in “banche che vendono automobili”: i casi citati son numerosi e vanno da quello della General Motors (per la quale l’80% del reddito lordo proviene appunto da attività finanziarie) a quello di Renault e Peugeot (le quali a fronte di grosse perdite industriali registrano buoni margini operativi proprio grazie alle attività finanziarie). Uno dei risultati socialmente più disastrosi di queste politiche è stato – non è difficile pensarlo – l’aumento della disoccupazione.

In pratica, se si pongono come obiettivi piena occupazione e condizioni lavorative dignitose, la conoscenza delle dinamiche socio-economiche del capitale ed il conseguente sviluppo di pratiche legislative volte a  contrastare un incauto sbilanciamento verso l’economia finanziaria risultano decisivi. Tuttavia – come ricordato in apertura – il potere del capitale è potere politico e, di conseguenza, tende ad alimentare se stesso, al costo di gravose ingiustizie e disparità umane e sociali. Lo scopo politico è, dunque, quello di riportare il potere politico nelle mani dei lavoratori.

Un altro punto non solo rilevante, ma anche estremamente attuale è quello che riguarda il segreto commerciale, che si attua, secondo Marx, “mantenendo il segreto sulle variazioni del prezzo, sul suo rialzo sopra il livello naturale”. E non è un caso che Stiglitz abbia vinto il Premio Nobel per l’economia proprio per la qua teoria sull’informazione imperfetta (per una trattazione più dettagliata della quale non è questa la sede opportuna).

Citando Adam Smith, inoltre, Marx ricorda che “il tasso del profitto si eleva con l’aumentare del rischio”: data la presunta crisi dei debiti statali, il concetto di rischio di insolvenza degli Stati è divenuto di estrema attualità. Si dice che uno Stato potrebbe divenire incapace di ripagare un debito e, per questo, gli interessi da pagare sul debito stesso risultano decisamente elevati. È evidente, invece – ove si tengano presenti le premesse di Smith e dello stesso Marx – che il rischio è stato creato ad hoc solo per aumentare il profitto.

Difatti, considerando i recenti dati di R&S-Mediobanca riguardo il periodo di crisi 2008-2013, che mostrano come le spese lorde degli Stati europei per “salvare” le banche sono state superiori ai 3.000 miliardi di euro (tremila miliardi di euro!), risulta nitidamente chiaro come non solo la finanza (che, come detto, è ormai la massima espressione del capitale ed, in quanto tale, è potere politico, in particolare legislativo) abbia salvato se stessa – scaricando i costi delle sue sbilanciate attività sui lavoratori – ma abbia anche aumentato il rischio di insolvenza (aumentando il debito pubblico degli Stati), accrescendo così il proprio profitto! 

Il quadro è tanto complesso quanto, in realtà, prevedibile. Non a caso Marx ricordava come “il tasso di profitto è naturalmente basso nei paesi ricchi ed alto nei paesi poveri, e non è mai tanto alto come nei paesi che precipitano con la massima rapidità verso la loro rovina [corsivo di chi scrive]”.

Dato che l’aumento del profitto è direttamente proporzionale alla riduzione del numero delle imprese in un determinato settore (si veda sempre “Finanzcapitalismo” di L. Gallino) – ossia è inestricabilmente legato alla formazione di monopoli –  secondo Marx “la concorrenza è l’unico sussidio contro i capitalisti, sussidio che a detta dell’economia politica agisce beneficamente in favore del pubblico consumatore tanto sull’aumento dei salari quanto sul ribasso delle merci” (qui Marx sembra riprendere quasi letteralmente il passo, pur citato, di Smith, secondo cui “la concorrenza tra capitalisti fa crescere i salari e fa cadere i profitti”).

Anche questo punto è decisamente rilevante: infatti, la vera sfida (che Marx riprende da Smith) non è quella tra mercato e tra controllo totale (per lo più statale) dell’economia, ma è quella tra capitale monopolistico (considerando tra l’altro come il monopolio economico risulti in una unidimensionalità individuale e sociale; si veda “L’uomo ad una dimensione”, H. Marcuse) e mercato concorrenziale. Per dimostrare l’estrema attualità di queste considerazioni, basti pensare che Facebook ha acquisito Whatsapp, arrivando quasi a monopolizzare il mercato dei social network.

Ancora, la considerazione che “il grande capitalista compra sempre più a buon mercato che il piccolo, perché compra le merci in maggiore quantità, e quindi può vendere a prezzo migliore senza rimetterci”, ci rimanda alle dispute tra colossi come Amazon ed i piccoli editori o tra grandi catene come Walmart e piccoli negozi al dettaglio, a testimonianza di come gli squilibri economici non solo non si sono ridotti, ma si sono altresì amplificati ed allargati ad altri campi commerciali. La monopolizzazione è direttamente proporzionale alla disuguaglianza sociale.

Peraltro, è singolare come un passo di Smith, citato da Marx in conclusione di questo capitolo, può sembrar scritto oggi, quando la globalizzazione ha portato alle estreme conseguenze questi processi: Smith, infatti, rileva come “vi sono in Inghilterra parecchie piccole città industriali, dove agli abitanti mancano i capitali necessari per trasportare i loro prodotti industriali su mercati lontani dove troverebbero richieste e consumatori”, a tutto vantaggio, ovviamente, dei grandi distributori monopolistici.

In conclusione, dal momento che gran parte della monopolizzazione sociale si basa sul potere politico, è evidente come l’unico modo per cambiare la società è la conquista del potere politico da parte dei salariati (ossia di tutti i non-capitalisti). Tutto quanto analizzato, infatti, per Marx “conduce necessariamente alla rivoluzione”.

 

Raffaele Vanacore

 
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Marx: il salario e la ricerca della felicità

 

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Alla base dell’opera socio-economica, e per questo – nella sua concezione – filosofico-politica, di Karl Marx vi sono senza dubbio i testi raccolti con il titolo “Manoscritti economico-filosofici del 1844”. In questi scritti, infatti, Marx (all’epoca ventiseienne ed a Parigi per motivi giornalistici, ma anche per approfondire proprio i suoi studi “economico-filosofici”) pone le basi della sua filosofia.

Ciò che rende, oggi, lo studio di Marx di particolare interesse è il fatto che la condizione di lavoro antropologicamente degradata e socialmente alienata, che Marx riteneva peculiare della classe operaia, si è oggi infiltrata, in maniera capillare, ma per questo più subdola, in quasi ogni altro ambito lavorativo. Se, infatti, Marx nel primo paragrafo – quello sul salario – cita estesamente un passo di Schulz che afferma come in un paese industrializzato “vi sono 999.000 individui [Schulz parla di operai di seconda categoria, cioè di quelli a bassa qualificazione professionale] che non vivono meglio di cinquant’anni prima, e stanno peggio se nel frattempo i prezzi dei generi di prima necessità sono aumentati”, l’analogia tra la condizione di un operaio (di second’ordine nella concezione di Schulz) di un paio di secoli fa e quella di un normale lavoratore odierno (od anche di un pensionato) risulta chiaramente – e vigorosamente – evidente.

In altre parole, la dicotomia marxiana operaio-capitalista – in un’epoca non ancora caratterizzata dall’emergere di un vasto ceto medio – si può traslare, oggi che la società liquida ha rotto i vincoli di una società precostituita  ed oggi che la trentennale stagnazione dei salari (peraltro associata ad un massiccio aumento della tassazione) ha nettamente ridotto il potere d’acquisto (aumentando la povertà relativa) della maggior parte della popolazione, in una dicotomia ceto medio (intendendo con questo termine la stragrande maggioranza della popolazione che non vive di rendita – né ereditaria né finanziaria)-capitalista. Ancor meglio, comprendere le dinamiche del dualismo operaio-capitalista che ha portato all’impoverimento del prima significa capire le dinamiche del dualismo ceto medio-capitalista che ha portato all’impoverimento del primo, ossia della stragrande maggioranza della popolazione.

A tal proposito lo studio di Marx, partendo dunque proprio dai suoi primi scritti, si rivela decisivo. Difatti, alla base degli scritti economico-filosofici vi è – fatto di assoluta preponderanza nella comprensione della genesi della “crisi” economica odierna – il dato, ormai classico ma spesso dimenticato, che “come l’accumulo del capitale aumenta la quantità delle industrie, e quindi degli operai, la stessa quantità di industrie produce, a causa di questa accumulazione, una maggior quantità di manufatti, che dà origine ad un eccesso di produzione; e ciò va a finire o nel licenziamento di una gran parte degli operai oppure nella riduzione del loro salario al minimo più miserabile. Ecco le conseguenze di una situazione sociale, che è la più favorevole possibile all’operaio, cioè della situazione di ricchezza crescente, in progresso”.

Orbene, posto il progresso come precondizione di una crisi (secondo il classico modello sovrapproduzione-diminuzione della produzione-licenziamenti e riduzione dei salari-stagnazione-crisi economica) e ricordato (L- Gallino – “Il colpo di stato di banche e governi”) che “l’accumulazione finanziaria è stata la risposta dell’economia capitalistica alla stagnazione”, come districarsi da questo complesso meccanismo socio-economico che così tanto influisce sulla vita dei lavoratori, e quindi delle persone?

Definita, dunque, l’analogia intrinseca tra la condizione, antropologica e sociale, dell’operaio di due secoli fa e quella del lavoratore del Terzo Millennio (soggezione alla disoccupazione ed alla riduzione dei salari, decisa riduzione del potere d’acquisto e della qualità di vita, aumento della povertà assoluta e relativa), occorre considerare la base di questa economia sovraproduttrice. Secondo Marx, essa va ricercata nella concentrazione dei capitali e ciò – ricordando il nostro sforzo di contestualizzare gli aspetti peculiari, e rilevanti, del pensiero marxista al giorno d’oggi al fine di scovare i tratti negativi della società e far emergere soluzioni positive – è di significativa analogia con la concezione, ad esempio, di Stiglitz (“Il prezzo della disuguaglianza”), secondo cui la vera chiave della crisi odierna è proprio l’accumulazione di capitale che esita appunto nella creazione di monopoli.

In pratica, come ricordato con la citazione di Gallino (vedi sopra), a creare questa situazione, antropologicamente degradata e socialmente alienata – che era tipica dell’operaio due secoli fa e che oggi è tipica della stragrande maggioranza della popolazione – son stati la creazione di monopoli da un lato e l’accumulazione finanziaria dall’altro. Di conseguenza, è evidente che per vincere questa situazione di crisi e di costrizione sociale, occorre abbattere i monopoli e sradicare l’accumulazione finanziaria, procedendo ad una più equa redistribuzione delle risorse, economiche quanto ecologiche, della nostra Terra. Questi devono essere gli obiettivi di una politica realmente volta all’equità ed alla giustizia sociale.

Tuttavia, con Marx, “bisogna concludere che l’infelicità della società è lo scopo dell’economia politica”: e questo è singolarmente in contrasto con la Costituzione americana, per la quale la ricerca della felicità è un diritto inalienabile del’uomo. La società attuale produce infelicità e quindi creare una società che produca felicità è il vero obiettivo di una politica volta alla ricerca della felicità.

Raffaele Vanacore

 
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Marx?

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Quel che risulta di eterna attualità, nella teoria marxiana, è la concezione sociologica – di cui l’economia è una, seppur preponderante, parte – piuttosto che la teoria economica stessa. Se difatti la proprietà privata resta il fulcro dell’economia antropologica odierna – e si estende in un mondo sempre più, su sua misura, globalizzato – qual è la costante della teoria marxiana?   La rivoluzione marxista è consistita – e ciò travalica di slancio i confini di qualsivoglia ideologia filosofica o politica – nella scoperta dell’inestricabile rapporto tra struttura economica, sovrastrutture sociali (esplicitamente giuridiche e politiche) e coscienza. Il materialismo storico, che è – di fatto – questo fluire deterministico di struttura-sovrastruttura-coscienza, si basa sul presupposto che “non è la coscienza degli uomini a determinare il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”.

Ma come si determina il loro essere sociale?  “Nella produzione sociale della loro esistenza gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica ed alla quale corrispondono forze determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita”.

In sostanza, la struttura economica, tramite la costituzione di sovrastrutture ideologiche, si fa coscienza; e ciò sarà un caposaldo della critica sociale francofortese (per Marcuse “i termini della psicologia diventano i termini delle forze della società che determinano la psiche”). Ma, dal momento che la struttura economica, organizzata e plasmata dalla tecnologia, il cui sviluppo è intrecciato – se non determinato – dalla struttura economica stessa, domina la realtà cosciente, chi controlla – tramite la tecnologia – la struttura economica controlla la coscienza stessa.

Ma come fa la struttura economica a controllare la coscienza?  Lo fa attraverso “forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che consentono agli uomini di concepire questo conflitto [tra forze produttive della società ed i rapporti di produzione] e di combatterlo”. In poche parole, “l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini”.

Quindi, il punto fondamentale è che la struttura economica – ossia la struttura dominante (il dominio si esplica attraverso l’inesorabile circolo potere-tecnologia-struttura economica) – risulta tanto più trasferibile al cervello quanto più le forme ideologiche sono accettabili dall’individuo. È già Adorno, infatti, a svelare come “mentre il singolo sparisce davanti all’apparato che serve, è rifornito da esso meglio di quanto non sia mai stato. Nello stato ingiusto l’impotenza e la dirigibilità della massa cresce con la quantità di beni che le viene assegnata”. Quindi, mentre la sovrastruttura si fa piacevole, la struttura economica raggiunge il massimo grado di dominio sulla coscienza dell’individuo.

Raffaele Vanacore

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La città di Dio, l’anima e il corpo

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Un’opera immortale, grazie alla sua influenza ben più che religiosa, è la “Città di Dio” di Sant’Agostino: l’opera del Santo di Ippona si è imposta, infatti, a fondamento di tutta la teologia sociale cristiana, e quindi di tutta la società occidentale. Ma qual è in poche parole la chiave di volta dell’opera? Questa consiste, in breve, nell’inserimento della teologia cristiana nella tradizione platonica, e dunque orfica, basata sul dualismo anima-corpo. Tale dualismo nasce, dunque, intorno al VI secolo a. C. in Grecia e, come sottolinea Giovanni Reale,

contrappone l’anima immortale al corpo mortale e considera la prima come il vero uomo o, meglio, ciò che nell’uomo veramente conta e vale. Si tratta di una concezione, come è stato ben notato, che inserì nella civiltà europea un’interpretazione nuova dell’esistenza umana. Che questa concezione sia di genesi orfica non parrebbe cosa dubbia”.

Nata, dunque, nel VI secolo a. C., questa concezione dualistica ottiene la propria legittimazione filosofica grazie a Pitagora ed, in seguito ed in particolare, a Platone: è quest’ultimo che, infatti, nella sua costruzione filosofica basata sul mondo delle idee, affida all’anima un ruolo decisivo. Essa, infatti, è immortale ed incorporea, due attributi di incredibile rilevanza per gli sviluppi teologici e sociali del mondo occidentale. Per comprendere la questione occorre, come premessa, citare un altro passo di Reale (non è un caso che il filosofo abbia dedicato gran parte dei suoi studi all’Orfismo ed alla nascita del concetto di anima):

Socrate non si pronunciava sull’immortalità dell’anima, perché non aveva ancora gli elementi per farlo, elementi che solo con Platone emergeranno. Ma, nonostante più di duemila anni, ancora oggi si pensa che l’essenza dell’uomo sia la psyche. Molti, sbagliando, ritengono che il concetto di anima sia una creazione cristiana: è sbagliatissimo. Per certi aspetti il concetto di anima e di immortalità dell’anima è contrario alla dottrina cristiana, che parla invece di risurrezione dei corpi. Che poi i primi pensatori della Patristica abbiano utilizzato categorie filosofiche greche, e che quindi l’apparato concettuale del cristianesimo sia in parte ellenizzante, non deve far dimenticare che il concetto di psyche è una grandiosa creazione dei greci. L’Occidente viene da qui.”

L’immortalità dell’anima, dunque, assegna, da un lato, alla vita terrena un ruolo “preparatorio” per il vero mondo, che è dopo la vita terrestre: l’anima deve comportarsi bene (secondo leggi morali largamente imposte dai gruppi dominanti e ciò avrà un ruolo decisivo negli studi filosofici di Russell ed in quelli psicologici di Fromm). Secondo la concezione orfica, platonica, agostiniana e quindi cristiana, il mondo terreno è, quindi, una sorta di “prova” per il vero mondo, quello dell’aldilà (e qui entra in gioco un’altra componente, l’analisi della quale tuttavia esula dallo scopo di quest’articolo, ovvero il libero arbitrio, decisivo nella teologia cristiana come nella critica psicologica di Fromm).

Dall’altro lato, l’incorporeità dell’anima ha un ruolo di straordinaria importanza nello sviluppo del pensiero socio-teologico occidentale: se quindi l’orfismo, e con esso Platone, aveva assegnato all’anima una struttura incorporea, Cristo predicava la salvezza del corpo (come suggerito anche da Reale nel passo citato sopra). Tuttavia, la patristica, e Sant’Agostino in particolare, fanno propria la concezione orfica dell’anima, derivando da questa quel dualismo ontologico che influenza ancor oggi la nostra psicologia.

Questa interpretazione quasi neuro-religiosa della nostra mente ha avuto un impatto devastante sulla storia della specie umana e del mondo intero. Ad esempio, la differenziazione della specie umane in razze si è basata proprio su questo presupposto neuro-religioso: questa giustificazione morale ha concesso la libertà etica, dapprima, di colonizzare interi territori, popolati da individui ritenuti “inferiori” solo perché tecnologicamente meno avanzati (secondo una trasposizione di un’inferiorità tecnologica in un’inferiorità ontologica; anche per questo si veda avanti), e, poi, di continuare a segregare le persone appartenenti a minoranze etniche in non-luoghi di tortura e sopraffazione, senza che il minimo rimorso morale colpisca la maggior parte delle persone.

Inoltre, il ritenere anche gli animali senza anima ha portato ad un lunghissimo, e non ancora terminato, dominio dell’uomo sugli altri animali, fino a forme di vera e propria tortura su di essi. Peraltro, la distinzione di anima e corpo ha portato alla distinzione dei disturbi mentali in organici (prevalentemente neurologici) e funzionali (prevalentemente psichiatrici): i secondi, ritenuti disturbi dell’anima, erano l’espressione di un’anima marcia, deviata, e quindi non andavano curati, ma era la stessa anima che andava estirpata, e la lunga e tragica storia dei manicomi (a cui lo stesso Russell dedica grande rilevanza) ne è l’esempio più eclatante.

Per Heidegger, al contrario, l’essenza dell’esistenza è l’essere-per-la-morte: solo la consapevolezza della propria morte conduce l’uomo alla libertà. Come ricordato in un altro articolo (https://danaeblog.com/2014/05/02/heidegger-ovvero-langoscia-del-nostro-tempo/), secondo questa concezione risulta chiara l’abusata affermazione marxiana secondo cui “la religione è l’oppio dei popoli”: la religione, infatti, promettendo un aldilà, si frammette alla vera essenza dell’esserci, ossia la morte, anestetizzando così l’intelletto umano e privando, in tal modo, l’uomo della sua stessa libertà.

Raffaele Vanacore
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