Movimenti operai e cicli del prodotto

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Capitolo 3. Movimenti operai e cicli del prodotto

Il terzo capitolo si propone di ampliare la dimensione temporale dell’analisi dei modelli di mobilitazione operaia attraverso il confronto dell’industria automobilistica con quella tessile, ed il tentativo di identificazione dei settori predominanti del secolo attuale in relazione al possibile attuarsi di processi simili a quelli precedentemente descritti. È possibile sinterizzare schematicamente gli obiettivi che intende raggiungere la trattazione qui sviluppata, in termini di dimostrazione della validità di tue tesi principali: gli ambiti principali di formazione della classe operaia e delle agitazioni si spostano all’interno di ogni settore parallelamente agli spostamenti geografici della produzione; tali ambiti sono soggetti a spostamenti anche da settore a settore, parallelamente all’ascesa ed al declino dei settori trainanti dello sviluppo capitalistico. Propedeutico alla comprensione di questa dinamica intersettoriale è il concetto di “innovazione di prodotto”: il capitale può rispondere alla contrazione dei profitti in un determinato settore con la delocalizzazione (soluzione spaziale) oppure con l’innovazione dei processi di produzione (soluzione tecnologica), ma anche tentando di trasferire gli investimenti verso nuovi settori meno soggetti ad una forte competizione e nuove linee di prodotti innovativi e più redditizi.

 

Il ciclo del prodotto dell’automobile.

Viene proposta una riformulazione critica della teoria del ciclo del prodotto , al fine di collegare tra loro le dinamiche intra- ed inter-settoriali e fornire una base per la comparazione analitica dei cicli intra-settoriali. Il capitalismo storico si è caratterizzato per una serie di cicli produttivi parzialmente sovrapposti, nell’ambito dei quali gli stadi maturi di un ciclo coincidono con l’inizio del ciclo successivo.

La storia dell’industria automobilistica mondiale viene quindi riconcettualizzata in termini di “ciclo del prodotto”, parallelamente ad una comparazione con l’industria tessile. Il modello originale del ciclo di vita del prodotto proposto da Raymond Vernon (1966) si caratterizza per una specifica articolazione: in prodotti di recente innovazione nascono tendenzialmente nei paesi più ricchi, ma, nel corso del loro ciclo di vita, gli impianti di produzione vengono poi dislocati in paesi dove i costi sono più bassi. Tale fenomeno si spiega in relazione al fatto che, durante le prime fasi del ciclo, la concorrenza è bassa e quindi i costi sono poco determinanti; successivamente, quando il prodotto raggiunge lo stadio della maturità con la relativa “standardizzazione”, i concorrenti aumentano, insieme alle pressioni per ridurre i costi. Il percorso descritto in precedenza, a proposito dell’industria automobilistica, corrisponde all’andamento della dinamica appena illustrata, nella misura in cui la produzione si disloca progressivamente nei paesi caratterizzati da bassi salari. Tuttavia, le teorie del ciclo del prodotto, concentrandosi esclusivamente sulle variabili economiche (concorrenza e costi) come cause ed effetti del ciclo, non considera la variabile sociale costituita dalla formazione della classe operaia e dalle contestazioni correlate. Una grande ondata di agitazioni operaie è uno dei fattori che concorrono alla spinta verso un nuovo stadio di dispersione della produzione, ed ogni nuovo stadio rappresenta anche un nuovo momento di formazione della classe operaia. Nello specifico, lo stadio innovativo del ciclo di vita dell’automobile, raggiunto il proprio limite negli Stati Uniti con le lotte sindacali condotte dal CIO, cede il posto al secondo stadio, quello della maturità, che, a sua volta, arriva ad un punto di non ritorno con le agitazioni degli operai europei nei tardi anni sessanta e nel decennio successivo; il terzo stadio, quello della standardizzazione, ha cominciato a raggiungere la sua fase-limite finale con l’esplosione della militanza operaia nei paesi di recente industrializzazione tra gli anni ottanta e novanta.

Gli studi sul ciclo di vita del prodotto sottolineano il fatto che ogni stadio avviene in contesti sempre più concorrenziali, in seguito alla diffusione geografica della produzione, ed il processo diventa sempre più standardizzato: il passaggio da uno stadio all’altro del ciclo produttivo determina un declino della redditività, in relazione alla diminuzione della sopravvenienza attiva monopolistica ed all’abbassamento dei livelli salariali. In quest’ottica, i datori di lavoro che si trovavano allo stadio iniziale del ciclo erano in grado di finanziare un accordo tra capitale e lavoro più stabile e meglio remunerato, poiché beneficiari degli extraprofitti monopolistici, resistendo per oltre quarant’anni anche dopo la conflittualità degli anni trenta. Ciò diviene sempre meno economicamente sostenibile in prossimità dell’avvicinarsi alle fasi finali del ciclo del prodotto, a causa dei bassi profitti derivanti dalle pressioni della concorrenza. Tale fenomeno è stato definito come “contraddizione del successo semiperiferico” (Silver, 1990). La mancanza di accordi stabili tra capitale e lavoro stabilizza il tasso di militanza operaia su livelli sostanzialmente alti, creando un’ulteriore motivazione a favore della delocalizzazione. In linea con quanto dimostrato, appare evidente l’accelerazione attuatasi nel passaggio da uno stadio del ciclo di vita del prodotto automobile al successivo.

 

Il complesso ciclo del prodotto tessile in una prospettiva comparata.

Dal confronto tra le dinamiche di militanza operaia e ricollocazione del prodotto automobilistico con quelle del precedente ciclo del prodotto tessile emerge una certa somiglianza in relazione allo schema seguito: là dove il capitale del settore tessile si è spostato sono emersi conflitti, e ogniqualvolta è emerso un conflitto i capitalisti hanno risposto con una riorganizzazione spaziale e tecnologica. Un’unica differenza è ravvisabile nell’esito negativo che hanno avuto quasi tutti i tentativi di mobilitazione operaia, nonostante le potenzialità oppositorie legate ad una forte militanza. Le due uniche eccezioni sono rappresentate dal caso del Regno Unito, dove, grazie agli extraprofitti ottenuti dagli innovatori, fu possibile siglare accordi relativamente stabili e di lungo termine tra capitale e lavoro, e da quello degli operai tessili che facevano parte dell’ondata di movimenti di liberazione nazionale dei paesi coloniali, e che riuscirono ad avvalersi di tale lotta. È opportuno specificare che il diverso esito delle lotte dei lavoratori del settore automobilistico e del settore tessile trova una valida spiegazione nella diversa organizzazione della produzione, con la conseguente variazione del livello di intensità del potere contrattuale dei lavoratori. Al fine di condurre un’analisi comparativa dei cicli dei due diversi fenomeni di militanza considerati, sarà opportuno delineare le somiglianze e le differenze tre le mobilitazioni operaie nei due settori, confrontando fase per fase i rispettivi cicli del prodotto. In entrambi i casi, le prime grandi ondate vittoriose di mobilitazione avvengono nello stesso paese in cui il ciclo ha inizio (Regno Unito per il tessile, Stati Uniti per il settore automobilistico); come gli operai del settore automobilistico costituivano l’avanguardia del movimento operaio statunitense della metà del Novecento, così i sindacati dei lavoratori tessili erano i più forti nel Regno Unito della fine dell’Ottocento. Tali prime grandi vittorie sono sempre avvenute nel luogo d’origine del ciclo, e nel momento in cui lo stadio d’innovazione volgeva al termine. Al contrario, la fase successiva di diffusione geografica della produzione, in seguito all’adozione della soluzione spaziale da parte degli imprenditori, presenta notevoli differenze tra i due settori.

Infatti, nello stadio maturo dell’industria tessile si registra una dispersione della produzione maggiore rispetto allo stesso stadio del ciclo del prodotto automobilistico, e tale differenza permane anche negli stadi successivi. Questa difformità trova spiegazione in alcuni fattori strutturali specifici: nel settore tessile, le barriere doganali piuttosto basse consentivano anche a piccole imprese di poter essere competitive, essendo le economie di scala di questo tipo di produzione poco significative ed i macchinari facilmente importabili; anche se la produzione tessile meccanizzata costitutiva un elemento di novità della rivoluzione industriale, tuttavia il settore tessile esisteva fin dall’epoca premoderna. In seguito alle prime mobilitazioni operaie, le aziende statunitensi iniziano ad attuare una strategia combinata di riorganizzazioni saziali e tecnologiche, allo scopo di risolvere i problemi di controllo della forza lavoro: a partire dal 1870 i filatoi intermittenti (mule-spinning machine) vengono sostituiti dai filatoi ad anelli (ring-spinning machine) il cui controllo poteva essere gestito anche da donne e ragazzi.

L’applicazione di questo nuovo tipo di macchina filatrice dà avvio ad un periodo di sviluppo massiccio dell’industria tessile nel Sud degli Stati Uniti, in India, in Giappone ed in Cina. Negli anni venti, la globalizzazione della produzione, similmente a quanto verificatosi per l’industria automobilistica, è causa dell’applicazione di forti pressioni concorrenziali a livello mondiale che, costringendo le aziende a fronteggiare tali condizioni mediante pratiche di razionalizzazione della produzione e taglio dei costi, scatena anche un’ondata di agitazioni operaie in tutto il mondo. Nello specifico, la già affrontata questione della maggiore estensione superficiale del fenomeno militante dell’industria tessile rispetto a quella automobilistica, non va interpretata in termini di un maggior potere contrattuale dei lavoratori: a sostegno della veridicità di questa considerazione è utile riflettere sull’esito quasi sempre fallimentare delle proteste degli operai delle aziende tessili. Gli unici successi registrati sono circoscritti ai paesi nell’ambito dei quali gli operai potevano contare sull’appoggio dei nascenti movimenti nazionalisti: è questo il caso di Bombey e del contesto cinese. In definitiva, pur nell’evidente somiglianza dei processi economici e politici attuatisi nel tempo, i modelli storico-mondiali di militanza operaia dell’industria automobilistica e di quella tessile, nel loro costituirsi in una dimensione diacronica in termini di ciclo del prodotto, presentano due differenze sostanziali: la diffusione geografica dei picchi delle ondate di agitazioni è maggiore nel settore tessile che in quello automobilistico; il successo delle lotte operaie, in relazione alla capacità complessiva di ottenere vantaggi dal capitale, è maggiore nel settore automobilistico che in quello tessile. Gli operai di quest’ultimo settore, infatti, non potendo interrompere il flusso produttivo, essendo l’industria tessile disintegrata verticalmente ed il processo di lavoro suddiviso in fasi distinte, a differenza della produzione di massa di tipo fordista caratterizzata da integrazione verticale e produzione a flusso continuo, non ottengono particolari benefici dalle mobilitazioni messe in atto, anche a causa delle ridotte dimensioni delle singole aziende, con la relativa limitazione della quota di capitale fisso immobilizzato da uno sciopero.

È da considerare inoltre la progressiva diminuzione del livello di specializzazione degli addetti alla produzione, come conseguenza dell’implementazione di macchinari dal più semplice utilizzo. Questa debolezza strutturale del potere contrattuale degli operai trova una parziale compensazione nel potere associativo: i lavoratori britannici della fine del XIX ottengono alcuni risultati positivi grazie alle solide basi del sindacato. L’analisi comparativa finora condotta è incentrata sui singoli stadi delle dinamiche di conflittualità interne a ciascun settore. È necessario precisare che l’ascesa ed il declino dei conflitti tra capitale e lavoro nei cicli del prodotto tessile ed automobilistico si configurano come traiettorie collegate da una dinamica intersettoriale: essi si sovrappongono e si influenzano, determinando uno spostamento del capitale dall’industria tessile a quella automobilistica, in concomitanza con l’avanzamento della prima nella fase di maturità.

In conclusione, è possibile affermare che la dinamica generale dei conflitti operai mondiali è strettamente legata alle fasi dei cicli del prodotto ed alle variazioni correlate del potere contrattuale dei lavoratori. In questi termini, il tentativo di comprendere le di dinamiche future dei movimenti operai necessita di un’indagine circa il più probabile successore del complesso industriale automobilistico come settore trainante del capitalismo mondiale.

 

Cicli, innovazioni e mobilitazione operaia nel settore dei trasporti.

L’industria tessile e quella automobilistica si caratterizzano per una sostanziale dipendenza dalle attività e dai sistemi di trasporto in varie fasi del processo produttivo, dall’acquisizione di materie prime fino all’arrivo dei prodotti finali sul mercato: è quindi assodata la centralità del settore dei trasporti per il capitalismo storico. I lavoratori che operano nell’ambito di quest’ultimo contesto sono dotati di un potere contrattuale connesso al luogo di lavoro relativamente forte: il loro “luogo di lavoro” è l’intera rete di distribuzione. Lo sviluppo di nuove reti di trasporti ha sempre prodotto un grande effetto sulle fonti di ricchezza dei capitalisti allocate in vari luoghi (Harvey, 1999) e, di conseguenza, anche il malfunzionamento delle reti esistenti, compreso quello provocato dalle lotte operaie. In questo caso specifico, risulta alquanto complesso pianificare riorganizzazioni spaziali come strategie di risposta al potere contrattuale dei lavoratori. Per questo motivo, una strategia cui i datori di lavoro hanno fatto ampiamente ricorso è stata l’innovazione tecnologica: la “containerizzazione” e la meccanizzazione dei docks nel trasporto marittimo si configurano come innovazioni responsabili della riduzione della manodopera. Dove invece non si sono attuate trasformazioni nei processi lavorativi, le pratiche di contenimento delle mobilitazioni dei lavoratori si sono concretizzate nell’innovazione di prodotto, in termini di pressioni concorrenziali legate alle diverse possibilità e modalità di trasporto delle merci. Infine, anche la regolamentazione statale ha giocato un ruolo diretto nella dinamica delle agitazioni nei trasporti.

Questione cardine che si pone come imprescindibile per la comprensione e l’analisi degli esiti dei movimenti operai dell’inizio del XXI secolo, e che si afferma anche nell’ambito settoriale dei trasporti, è la determinazione della previsione delle modalità d’azione dei lavoratori provvisti di un forte potere contrattuale, in relazione ad un eventuale utilizzo a vantaggio della categoria d’appartenenza o di tutte le classi tipologiche di lavoratori.

A tal proposito, è necessario identificare il potenziale successore del complesso industriale automobilistico come settore trainante del capitalismo globale, al fine di indagarne le configurazioni interne del potere contrattuale dei lavoratori in esso orbitanti. Risulta improbabile alquanto individuare un unico prodotto che svolga un ruolo storicamente equivalente a quello ricoperto dal settore tessile nell’Ottocento e da quello automobilistico nel Novecento: una delle peculiarità più evidenti del capitalismo contemporaneo è proprio la sua eclettica flessibilità, che si manifesta nella grande quantità di beni di consumo e nella rapida ascesa di nuovi prodotti. Come conseguenza di quanto affermato, si palesa la necessità di identificare una serie di industrie che meritano uno sguardo analitico attento in quanto potenziali siti critici per la formazione di una classe operaia mondiale e di nuovi conflitti operai.

 

L’industria dei semiconduttori.

La varietà di beni che caratterizza la società consumistica postmoderna è stata resa possibile in gran parte grazie al semiconduttore: secondo Peter Dicken (1998), la microelettrica ha rimpiazzato l’automobile nel ruolo di “industria delle industrie”. L’impatto del settore microelettronico è indiretto, nella misura in cui si considera l’inclusione dei semiconduttori in una enorme quantità di prodotti e processi produttivi, ed allo stesso tempo non esercita una spinta pressoria diretta sulla formazione di una nuova classe operaia paragonabile a quella del tessile e dell’industria automobilistica. Nonostante la crescita esponenziale del volume della produzione a partire dagli anni settanta, il numero di nuovi posti di lavoro si è mantenuto sostanzialmente basso a causa dell’automatizzazione della produzione dei circuiti integrati. Inoltre, mentre la fase innovativa e tecnologicamente sofisticata di progettazione avviene nei paesi avanzati, dal momento che tale processo richiede personale altamente qualificato a livello tecnico, la parte manuale del ciclo produttivo di assemblaggio della scheda, invece, viene delocalizzata nei paesi a basso costo del lavoro. Ciò ha contribuito alla crescita del proletariato industriale giovanile e femminile nei paesi più poveri, fenomeno che viene definito “catena di montaggio globale”.

 

Servizi all’impresa.

Altro settore individuato come possibile successore dell’industria automobilistica è quello dei servizi all’impresa: questi nuovi tipi di prodotti variano dalle telecomunicazioni ai servizi specializzati di tipo legale, finanziario, pubblicitario, di consulenza e di contabilità. Si tratta di servizi all’impresa che danno sostegno a grandi organizzazioni che detengono la gestione di vaste reti globali di fabbriche, uffici e mercati finanziari. A partire dagli anni settanta, si registra un aumento notevole del livello occupazionale nei sevizi all’impresa, per la cui attuazione è necessario anche il lavoro di sostegno fornito dai cosiddetti “colletti blu” e “colletti rosa”. È necessario considerare che alcune mansioni facenti parte della categoria dei servizi alle imprese non devono necessariamente avvenire nelle sedi centrali: mentre ad esempio il lavoro di pulizia di un palazzo aziendale è legato al luogo, la pratica routinaria di immissione dei dati e stesura dei documenti, invece, può essere svolta in paesi caratterizzati da retribuzioni più basse.

Nonostante la frammentarietà delle classi lavorative coinvolte in questi processi, tuttavia, queste verso la fine degli anni novanta riportano vittorie significative. Ciò trova spiegazione nelle opportunità offerte dal potere di contrattazione associativo. Il segmento più mobile del processo di fornitura di servizi alle imprese, quello dell’immissione dei dati, ha determinato una tendenza all’investimento delle società statunitensi ed europee volto allo sfruttamento di lavoratori indiani scolarizzati e con un’ottima padronanza della lingua inglese. Si tratta quindi di un’altra importante area nella quale sta emergendo una nuova classe operaia con le relative potenzialità conflittuali: anche in questo caso assume rilevanza il potere di contrattazione associativo, purché non resti circoscritto a livello di comunità, ma si estenda ad un livello globale. Tale considerazione riporta alla già ribadita necessità di un internazionalismo operaio. Data la centralità della scolarizzazione di massa nel processo di espansione di questa manodopera legata alle telecomunicazioni, si potrebbe ipotizzare che il settore dell’informazione abbia assunto un ruolo centrale, tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, per l’industria che produce beni capitali.

 

L’industria della formazione.

Numerosi studiosi hanno evidenziato l’importanza assunta dal fattore “informazione” e dall’economia basata sulla conoscenza nel contesto societario contemporaneo, al fine di cogliere la natura delle trasformazioni postfordiste. In linea con questa ideologia, Manuel Castells (1997) ha fornito una concettualizzazione di quella che definisce “economia dell’informazione” e, analogamente, David Harvey (1989) ha considerato il capitalismo sempre più dipendente dalla mobilitazione delle potenzialità del lavoro intellettuale. Gli insegnanti pur dovendo “vendere” la loro capacità lavorativa per poter guadagnare, tuttavia non vengono considerati alla stregua degli operai dagli studiosi di scienze sociali, probabilmente perché la loro attività presume un certo grado di specializzazione, perché si ritiene che godano di una certa autonomia potendo esercitare un certo controllo sulla classe e sui programmi; inoltre, i sistemi educativi non sono strettamente assoggettati alla regola del profitto. Date queste peculiarità, occorre valutare se esse pongano i lavoratori del settore formativo pienamente al riparo dalle conseguenze negative della mercificazione del loro lavoro.

Parallelamente all’incremento occupazionale attivatosi nella metà del Novecento, nell’ambito del settore della formazione, si assiste ad un aumento delle agitazioni con un ampia diffusione geografica di queste ultime su scala planetaria. Nel caso specifico degli insegnanti, occorre precisare che il loro potere contrattuale legato al luogo di lavoro è alquanto debole, essendo inseriti in un sistema complesso di divisione tecnica del lavoro. Tuttavia, essi sono situati strategicamente nella divisione sociale del lavoro, nella misura in cui un eventuale sciopero degli insegnanti comporterebbe una frattura del sistema strutturale della società, considerando anche la questione dell’impatto a lungo termine sul prodotto finale (formazione scolastica degli alunni). Allo stesso tempo, la categoria dei docenti si caratterizza per un più forte potere di contrattazione nel mercato rispetto ai lavoratori dei settori industriali precedentemente esplorati: il mondo della scuola, infatti, resta sostanzialmente immune dalle innovazioni tecnologiche e gli insegnanti sono stati risparmiati dall’implementazione di tecnologie atte a ridurre l’impiego di manodopera.

A ciò si deve aggiungere anche un ulteriore caratteristica propria del settore della formazione che si configura in termini di resistenza alle riorganizzazioni spaziali. Dunque alla base del potere contrattuale degli insegnanti è possibile collocare l’impermeabilità del settore alle delocalizzazioni ed alle innovazioni tecnologiche. In relazione a quanto esposto, le attuali spinte alla riforma del sistema educativo possono essere interpretate come un tentativo di individuare strategie ulteriori volte a sottoporre gli insegnanti alle pressioni competitive. Sebbene l’insegnamento non sia stato stravolto, strutturalmente e nelle sue fondamenta, dalle trasformazioni tecnologiche in modo rilevante ed irreversibile, è difficile nonché prematuro anticipare in che misura Internet ed altre tecnologie avanzate di comunicazione possano essere utilizzate per aumentare la pressione competitiva sugli insegnanti, analogamente a quanto si è precedentemente verificato per i settori manifatturieri.

 

I servizi alla persona.

Ultimo settore da considerare, caratterizzato da un rapido sviluppo in termini occupazionali, è quello dei cosiddetti servizi alla persona, ambito definibile in generale come “servizi riproduttivi”, trattandosi del processo di mercificazione di attività precedentemente svolte all’interno della sfera domestica. Gli addetti di questo settore accettano condizioni di lavoro precarie e sono dotati di uno scarso potere contrattuale, essendo tale contesto lavorativo geograficamente disperso: i servizi alla persona, infatti, si rivolgono ad un consumatore individuale, seguendo un modello di dispersione corrispondente alla distribuzione della popolazione e della ricchezza. In particolare, essendo il settore in questione anche estremamente competitivo, data la molteplicità dell’offerta, risulta difficile alquanto per i lavoratori raggiungere un livello di coordinamento tale da attuare un blocco totale della produzione. Inoltre, il potere contrattuale legato al mercato è generalmente basso nei servizi alla persona, e tale constatazione trova legittimazione nella disponibilità di un’ampia offerta di lavoratori con le competenze necessarie a svolgere i compiti richiesti.

Lo sviluppo del settore in questione alla fine del XX secolo mette in evidenza una tendenza generale verso il progressivo declino del potere contrattuale legato al luogo di lavoro. Dunque, il percorso analitico sviluppato rivela una sostanziale impossibilità di individuazione di un’unica industria manifatturiera che svolga nell’epoca contemporanea quel ruolo chiave nei processi di accumulazione del capitale su scala mondiale svolto dall’industria tessile ed automobilistica nei secoli passati. In definitiva, poiché la traiettoria seguita dalle agitazioni operaie del Novecento non si è sviluppata solo nell’ambito dei cicli del prodotto, ma anche dei cicli della politica mondiale, occorre analizzare il rapporto intercorrente tra le dinamiche dei movimenti operai e la politica globale, al fine di comprendere in modo più approfondito le mobilitazioni del Novecento e di rafforzare un’analisi valutativa delle probabili tendenze future.

Augusto Cocorullo – Università degli Studi di Napoli “Federico II” – Dipartimento di Scienze Sociali – Dottorato di Ricerca in Scienze Sociali e Statistiche – XXIX ciclo

 
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I movimenti dei lavoratori e la mobilità del capitale

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Capitolo 2. I movimenti dei lavoratori e la mobilità del capitale

Il seguente capitolo si propone di analizzare le mobilitazioni operaie nell’ambito del settore fondamentale del capitalismo del ventesimo secolo, l’industria automobilistica. Dapprima viene delineato il modello spaziale e temporale dei conflitti operai di questo settore a livello mondiale, dal 1930 all’età contemporanea sulla base di indici desunti dall’elaborazione dei dati raccolti nel database WLG. Successivamente, si descrive il processo attraverso il quale si attua uno spostamento della militanza operaia in parallelo a successive fasi di ricollocazione del capitale. La produzione di massa dell’industria automobilistica determina contraddizioni sociali simili nei vari luoghi in cui essa si diffonde ed afferma. In seguito al verificarsi di questo fenomeno, si assiste all’attuazione di strategie specifiche da parte dei capitalisti mediante lo spostamento della produzione in zone caratterizzate da un minor costo del lavoro e da una manodopera più gestibile, provocando una duplice variazione strutturale: indebolimento dell’organizzazione operaia nelle zone di disinvestimento, rafforzamento della stessa nelle aree di nuova espansione. A tal proposito, David Harvey sostiene che lo spostamento della produzione costituisce una soluzione di tipo spaziale che, tuttavia, non risolve il problema in modo permanente (Harvey, 1989).

L’analisi si incentra sulle similitudini e sui legami tra le varie ondate di agitazioni operaie sorte nei punti strategici dell’espansione dell’industria automobilistica. Pur nella omogeneità e nella similarità dei processi verificatisi in diversi contesti industriali, tuttavia occorre isolare il caso del Giappone per la particolarità del suo sistema di produzione e per le conseguenze che da esso scaturiscono, in relazione alla quasi totale assenza di lotte operaie. Nello specifico, in Giappone, già prima del decollo dell’industria automobilistica, si assiste ad una forte mobilitazione operaia per far fronte alla quale, le aziende decidono di apportare significativi cambiamenti al modello fordista della produzione di massa. I produttori giapponesi di automobili creano dunque un sistema stratificato di subappalti, ai fini di garantire un alto livello occupazionale e di stringere un parrò di collaborazione con la forza lavoro, ottenendo flessibilità e costi contenuti. La strategia appena descritta ha consentito al Giappone di evitare le agitazioni operaie tipiche di altre parti del mondo e di adottare una serie di misure di mercato volte alla riduzione dei costi mediante la cosiddetta “produzione snella” (lean production).

Ritornando al contesto globale, occorre precisare che le trasformazioni della struttura produttiva susseguitesi nel corso degli anni non hanno avuto sempre e solo effetti negativi sul potere contrattuale dei lavoratori: in alcuni casi i metodi di produzione snella hanno aumentato la vulnerabilità del capitale rispetto alle interruzioni del flusso produttivo, incrementando il potere contrattuale aziendale degli operai. In un ambito più recente, le grandi aziende automobilistiche si sono impegnate per ottenere una cooperazione attiva da parte dei lavoratori ed un abbattimento dei costi di produzione. Tuttavia, tali strategie hanno creato una forte stratificazione della forza lavoro lungo la linea di demarcazione geografica tra centro e periferia ed in relazione alle differenze di genere. Al fine di sintetizzare le fasi caratteristiche del processo di determinazione dei modelli storico-mondiali di militanza operaia nell’industria automobilistica, risulta opportuno schematizzare i momenti salienti di questo fenomeno in relazione a tre contesti geografici specifici rappresentativi: Stati Uniti, Europa occidentale, Brasile.

In particolare, si verifica uno spostamento geografico-temporale dell’epicentro della militanza degli operai del settore automobilistico, dal Nord America negli anni trenta e quaranta, verso l’Europa occidentale e poi meridionale negli anni sessanta e settanta, per arrivare ai paesi di nuova industrializzazione negli anni ottanta e novanta. Queste ondate di contestazioni, pur essendosi attuate in contesti culturali, politici e storici estremamente diversi, presentano caratteristiche simili in relazione a determinati parametri: tutte hanno adottato forme non convenzionali di protesta, come le occupazioni, che paralizzavano la produzione di interi poli industriali; gli operai erano prevalentemente immigrati di prima o seconda generazione e potevano contare sul sostegno da parte delle comunità di appartenenza. Punti di contatto possono essere ravvisati anche nelle modalità di contenimento delle maggiori ondate di contestazione, nella misura in cui le vittorie operaie inducono ad attuare strategie manageriali dirette a indebolire strutturalmente il movimento dei lavoratori.

I numerosi tentativi finalizzati all’individuazione di una soluzione spaziale al problema del controllo della forza lavoro suggeriscono una specifica lettura analitica di queste ondate di mobilitazione: esse sono poste in relazione tra loro dai successivi spostamenti della produzione verso le aree di minor agitazione. Dunque, militanza operaia e mobilità del capitale possono essere considerati come parti integranti di un unico processo storico: il potere contrattuale dei lavoratori subisce un contenimento nei luoghi dai quali il capitale viene spostato, mentre si istituisce, fortificandosi, una nuova classe operaia nei luoghi di recente espansione industriale. Il percorso appena delineato si ripete con una certa similarità strutturale ed omogeneità di tratti caratteristici in un contesto globale più ampio a partire dagli anni trenta e quaranta negli Stati Uniti. Il 30 dicembre 1936 gli operai occuparono gli stabilimenti Fisher Body n.1 e n.2 della General Motors a Flint, nel Michigan. Il 12 marzo dell’anno seguente l’industria statunitense fu costretta a cedere firmando un contratto con la United Workers Auto. Questo evento segna l’inizio del processo di affermazione dei modelli storico-mondiali di militanza operaia nel settore produttivo automobilistico

L’elemento chiave che spiega il successo della UAW è collocabile nel potere contrattuale legato al luogo di lavoro, con la relativa capacità dei lavoratori di sfruttare la loro posizione nell’ambito del complesso modello di divisione del lavoro tipico della produzione di massa: attraverso pratiche di occupazione e di interruzione dell’attività lavorativa in specifici settori, infatti, è possibile paralizzare un’intera azienda. La strategia oppositoria di contenimento attuata dall’industria automobilistica nei riguardi delle mobilitazioni operaie si concretizza nello spostamento della produzione lontano dalle roccaforti del sindacato. A partire da questo episodio peculiare, si registrano altri simili avvenimenti che si sviluppano secondo le stesse modalità esposte, e che quindi, a buon diritto, possono essere ritenute costanti effettive del processo di formazione di movimenti operai in seguito all’affermarsi delle caratteristiche proprie della mobilità del capitale. Stesso discorso per l’Europa occidentale.

Durante il periodo compreso tra le due guerre mondiali, l’Europa occidentale, arretrata rispetto agli Stati Uniti nell’applicazione del modello fordista di produzione di massa nel settore automobilistico, presenta un sistema produttivo estremamente differente: l’industria europea era infatti caratterizzata dalla presenza di una molteplicità di piccole imprese impegnate nella produzione di auto “su ordinazione” (custom-manifacture), prive di quella forza coercitiva necessaria al raggiungimento di livelli di sviluppo simili rispetto alla ben più evoluta situazione statunitense. Data la limitata espansione del modello di produzione di massa, il potere contrattuale legato al luogo di lavoro degli operai europei era relativamente basso, mentre negli anni successivi alla prima guerra mondiale prevaleva il potere associativo. In questo periodo, infatti, si registra un aumento esponenziale dei movimenti operai e dei partiti di sinistra con il relativo guadagno di notevoli vittorie dal punto di vista elettorale e dei diritti dei lavoratori. A partire dagli anni cinquanta e sessanta, tuttavia, si assiste ad un processo di progressiva convergenza dei livelli del potere contrattuale legato al luogo di lavoro sulle due sponde dell’oceano Atlantico, in seguito allo spostamento del fulcro della crescita dell’industria automobilistica in Europa occidentale, come conseguenza delle forti mobilitazioni dei lavoratori statunitensi negli anni trenta e quaranta. Secondo Altshuler (1984), infatti, si può collocare la prima fase di espansione dell’industria automobilistica tra il 1910 ed il 1950 negli Stati Uniti, mentre la seconda si pone nell’Europa occidentale tra gli anni cinquanta e i sessanta (Altshuler, 1984).

La rapida diffusione del modello di produzione di massa determina il presentarsi di effetti contraddittori sulla forza lavoro europea, non molto diversi da quelli sperimentati in precedenza dai lavoratori statunitensi: si riduce il potere contrattuale dei lavoratori specializzati dotati di abilità artigianali in seguito all’affermarsi delle nuove modalità di produzione, da un lato; si costituisce una nuova classe operaia semispecializzata, composta da immigrati di recente proletarizzazione, a causa della trasformazione e dell’espansione del settore, dall’altro. Anche nel contesto europeo è possibile registrare un repentino mutamento della situazione: i lavoratori della nuova produzione di massa, a causa delle durissime condizioni di lavoro, come i loro omologhi negli anni trenta, sfruttando il potere contrattuale derivante dalla loro posizione all’interno del complesso sistema di divisione del lavoro, mettono in atto una serie di scioperi in punti e tempi strategici al fine di arrecare notevoli danni alle aziende automobilistiche.

Pur nella differenziazione tra area settentrionale e meridionale dell’Europa occidentale, dovuta all’andamento ben più esplosivo delle agitazioni degli operai nel Sud rispetto a quelle verificatesi al Nord, tuttavia i clamorosi successi dei movimenti operai provocano da parte dei costruttori di automobili una reazione analoga a quella attuata negli anni trenta e quaranta dalle aziende statunitensi: ci si affida dunque a misure risolutive già precedentemente sperimentate, come l’innovazione dei processi, la promozione di un sindacalismo responsabile e la ormai nota delocalizzazione della produzione. Quest’ultima strategia, adottata principalmente dalla Volkswagen con il trasferimento dei suoi investimenti in Messico ed in Brasile, sposta l’analisi in questione nel contesto geografico del Brasile, quale ulteriore ambito analitico dello studio sulla determinazione dei modelli storico-mondiali di militanza operaia nell’industria automobilistica. In particolare, gli anni del “miracolo economico” brasiliano, tra il 1968 e il 1974, corrispondono al periodo in cui il capitalismo del Primo Mondo era alla ricerca di un nuovo territorio nel investire. L’industria automobilistica brasiliana viene investita da un aumento esponenziale della produzione a partire dagli anni settanta: la rapida espansione del settore produttivo determina il costruirsi di una nuova classe operaia, in termini di esperienza e di numero. I lavoratori si trovano dunque in una posizione strategica all’interno del complesso sistema di divisione del lavoro, proprio come i colleghi statunitensi ed europei, e, rispetto a questi, sono strategicamente posizionati anche nel settore chiave delle attrezzature per i trasporti. Gli scioperi e la mobilitazione operaia assumono in questo contesto un valore potenziale ben più determinante rispetto alle situazioni precedentemente analizzate, potendo avere effetti non solo sui profitti del settore in questione, ma anche sulla capacità del governo brasiliano di provvedere al pagamento del suo consistente debito estero.

Alla fine degli anni settanta, scuotendo i lavoratori da quasi quindici anni di torpore, si affaccia sulla scena brasiliana un nuovo movimento sindacale. A partire dal 1978, si assiste ad una forte ondata di scioperi, in seguito al rifiuto da parte degli operai dello stabilimento Saab-Scania di São Bernardo di mettere in funzione i macchinari: tale fenomeno dà ufficialmente avvio ad una serie di episodi simili nelle fabbriche della Mercedes, della Ford, della Volkswagen e della Chrysler, fino ad interessare tutte le principali industrie automobilistiche brasiliane. Risulta più che evidente il parallelo, in termini di caratteristiche e modalità attuative, con le forme di protesta attuate negli Stati Uniti degli anni trenta e nell’Europa occidentale degli anni sessanta. Anche in questo caso i lavoratori riescono ad ottenere un incremento sostanziale dei salari ed il riconoscimento di nuovi sindacati indipendenti. Nonostante i numerosi tentativi di contenimento delle rivolte e di eliminazione dei sindacati nelle fabbriche da parte delle multinazionali del settore automobilistico, queste, costrette all’accettazione degli effetti delle mobilitazioni a partire dal 1982, vedono tuttavia affermarsi una nuova classe di operai consapevole dei propri diritti lavorativi.

Appare infine rilevante il fatto che il movimento operaio, nonostante le innumerevoli strategie oppositorie operate al riguardo, non sia riuscito ad ottenere le dovute garanzie relative alla sicurezza del posto di lavoro. Ad attirare l’attenzione degli investimenti delle multinazionali è, oltre il Brasile, anche il Sudafrica: qui si forma un vasto proletariato urbano nero, concentrato nelle mansioni semiqualificate delle industrie di produzione di massa. Il processo storico che si attua in questo ulteriore contesto geografico appare estremamente simile a quello sviluppatosi nei continenti precedentemente sottoposti ad analisi: costituitosi un movimento attivo di lavoratori, si assiste ad un’ondata di militanza operaia tra il 1970 e i primi anni ottanta, a partire da una serie di scioperi del 1973 concentrati nelle fabbriche di Durban, con la relativa acquisizione di legittimità da parte dei sindacati neri nel 1979. Il fallimento delle politiche repressive volte a mantenere il controllo sui lavoratori induce il capitale internazionale ad abbandonare l’industria automobilistica sudafricana, e a dirigersi, ancora una volta, verso un territorio caratterizzato da un basso grado di mobilitazioni operaie. Lo scenario d’applicazione del modello fordista di produzione di massa si sposta nel contesto della Corea del Sud, il cui governo si rivolge proprio al settore automobilistico al fine di attuare politiche di sviluppo del paese. Il caso coreano si pone in leggero contrasto rispetto a quello statunitense, a quello europeo, a quello brasiliano ed a quello africano, per il fatto che, inizialmente, il regime autoritario vigente bandisce sindacati autonomi e scioperi, contribuendo a mantenere bassi i salari e tiranniche le condizioni di lavoro, con il conseguente aumento esponenziale dei tassi produttivi.

Tuttavia, a partire dal 1987, un’ondata di mobilitazioni inizia a travolgere il paese, consentendo ai rivoltosi di ottenere rapide vittorie significative. Ai tentativi di repressione, si risponde con ulteriori forme di protesta che conducono ad un peggioramento di altri problemi strutturali (Rodgers, 1996). Un pieno riconoscimento della legittimazione dei movimenti e dei sindacati sudcoreani si ha nel 1997. In sintesi, si può affermare che le multinazionali del settore automobilistico abbiano inseguito l’improbabile obiettivo di un lavoro “docile” e a basso costo in ogni angolo del mondo, per poi rendersi conto della sconcertante similarità delle dinamiche di militanza dei movimenti operai: la strategia della delocalizzazione non ha fatto altro che trasferire le contraddizioni da un luogo di produzione all’altro, non risolvendo affatto i problemi di redditività e di controllo della forza lavoro. In quest’ottica, le tendenze più recenti osservabili nel contesto storico contemporaneo possono essere interpretate come inizio di un nuovo ciclo di delocalizzazione e di militanza: la Cina ed il Messico, nelle parole dell’autrice, costituiscono i nuovi siti adatti ad una rapida espansione e caratterizzati da bassi salari, dove, presumibilmente, potrebbe emergere un movimento operaio forte ed indipendente nell’industria automobilistica, appunto, cinese e messicana.

A questo punto, risulta necessario esplorare un altra caratteristica strutturale propria del settore industriale automobilistico legata alla strategie attuate dalle multinazionali in concomitanza con il progressivo affermarsi dei movimenti di militanza operaia. Accertata la sostanziale inconsistenza dell’applicazione della soluzione decolonizzante ai problemi di redditività e controllo della forza lavoro, si manifesta la minaccia competitiva rappresentata negli anni ottanta dal grande successo dei marchi giapponesi, che spinge i costruttori statunitensi e quelli dell’Europa occidentale ad implementare un piano di innovazione tecnologica come possibile soluzione dei loro problemi, emulando selettivamente i processi produttivi caratterizzanti il settore automobilistico giapponese. In seguito all’affermarsi di questa strategia, si assiste ad una progressiva diffusione e ad una sempre più convinta adozione di regole di lavoro flessibile e forme di consegna just in time, nonché del lavoro di team e dei cicli di qualità, con il conseguente abbandono dell’integrazione verticale a favore dell’outsourcing, uso estensivo di risorse subappaltate ad aziende esterne.

La sostanziale differenza che intercorre tra il modello originale giapponese e quello adottato dalle multinazionali nordamericane ed europee è ravvisabile nella mancanza, da parte di queste ultime, dell’offerta alla forza lavoro, impegnata nei settori strategici della produzione, della garanzia di un lavoro sicuro: l’imitazione, dunque, è circoscritta alle misure tipiche della produzione snella giapponese, non estendendosi alle politiche del lavoro ad esse correlate. Il modello che ne scaturisce può essere definito come lean and mean (“snello e miserabile”) (Harrison, 1997), mentre quello “toyotista” originario, offrendo sicurezza in cambio di cooperazione, si configura come lean and dual (“snello e duale”). La differenza tra i due modelli è cruciale per comprendere le dinamiche delle agitazioni operaie contemporanee nel settore dell’industria automobilistica. Infatti, in molti dei vari siti di espansione della stessa, le politiche di impiego mantengono le medesime caratteristiche del passato, determinando il perdurare del modello lean and mean e delle dinamiche di costituzione di nuovi movimenti operai ad esso collegato.

Pur nella sua generale validità, tuttavia, il modello della produzione snella, nelle forme in cui esso è stato prevalentemente sfruttato, presenta dei limiti attuativi legati all’incapacità di adottare contestuali politiche d’impiego atte a favorire la cooperazione attiva tra lavoratori. In definitiva, tali strategie non si sono limitate alla ricollocazione del capitale industriale o alla riorganizzazione delle linee di produzione esistenti: il capitale, nella costante ricerca di maggiori rendimenti e di un più saldo controllo, si è esteso in nuovi settori ed in nuove tipologie di prodotti. Gli spostamenti geografici della conflittualità non sono più circoscritti in uno specifico settore industriale, ma si configurano come intersettoriali di lungo periodo nella localizzazione del conflitto tra capitale e lavoro. Dunque, il conflitto operaio si lega inscindibilmente alla soluzione basata sulla riorganizzazione del prodotto (product fix) quale ulteriore variabile da considerare nell’analisi del fenomeno in questione.

Augusto Cocorullo – Università degli Studi di Napoli “Federico II” – Dipartimento di Scienze Sociali – Dottorato di Ricerca in Scienze Sociali e Statistiche – XXIX ciclo
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Beverly J. Silver – Le forze del lavoro. Movimenti operai e globalizzazione dal 1870

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Biografia
Beverly J. Silver è docente di Sociologia presso la Johns Hopkins University di Baltimore (Maryland). È autrice di Forces of labor. Workers’ Movements and Globalization since 1870 (CUP, Cambridge 2003). Ha ricevuto due volte il “Distinguished Scholarly Publication Award” dalla sezione Pews (Political Economy of the World-System) dell’American Sociological Association. Per Bruno Mondadori ha pubblicato Caos e governo del mondo (con G. Arrighi, 2003) e Le forze del lavoro. Movimenti operai e globalizzazione dal 1870 (2008).

Abstract
Un libro innovativo, imparziale e rigoroso, un’analisi comparativa di lungo periodo che si avvale di un’imponente raccolta di dati. Nell’esaminare le trasformazioni storiche, le forme di resistenza e il ruolo dei movimenti operai nei paesi del Nord e del Sud del mondo, l’autrice dimostra che i movimenti su scala locale sono sempre connessi con i processi politici e socio-economici che avvengono su scala globale coincidendo con l’avvicendarsi dei settori nevralgici dello sviluppo capitalistico e la localizzazione geografica della produzione. Punto di partenza della monografia è un quesito: il movimento operaio è destinato irreversibilmente a perdere la sua forza e la sua capacità negoziale?

L’autrice studia le trasformazioni principali delle lotte operaie, il passaggio dalla centralità del settore tessile a quella del settore automobilistico fino a quelle odierne dei settori dei trasporti e delle comunicazioni e mostra il ruolo che ancora oggi in molte parti del mondo, specialmente dove è stata delocalizzata parte dell’attività industriale, giocano i movimenti dei lavoratori. La ricerca è condotta in maniera rigorosa, e il ventaglio di possibilità di azione e organizzazione che presenta non derivano da una tesi a priori, ma da un’attenta disamina dei dati sull’andamento delle lotte operaie in una pluralità di paesi del Nord e del Sud del mondo. Il libro è un esempio raro di sociologia rigorosa, basata su analisi comparative di lungo periodo capaci anche di fornire ragionevoli previsioni sulla direzione che i fenomeni sotto osservazione prenderanno nel futuro.

 

Capitolo 1. Introduzione
La crisi dei movimenti operai e degli studi sul movimento operaio
Nell’ultimo ventennio del Novecento si registra, nell’ambito delle scienze sociali, una condizione di crisi avanzata dei movimenti operai, con il relativo affievolirsi degli studi ad essi dedicati. I fattori che conducono a tale conclusione possono essere in tal modo schematizzati: diminuzione del numero di scioperi e di altre espressioni di militanza dei lavoratori; calo delle adesioni al sindacato; riduzione dei salari a fronte di una crescente precarietà lavorativa. William Sewell, a tal proposito, nota che l’inadeguatezza della classe operaia nello svolgere quel compito liberatorio assegnatole tanto dai discorsi rivoluzionari quanto da quelli riformisti, fa perdere parte del proprio peso allo studio della sua storia (Sewell, 1993).

Questa doppia crisi si configura come “strutturale” e “di lungo periodo”, poiché correlata alle trasformazioni epocali caratterizzanti gli ultimi decenni del ventesimo secolo e derivanti dal fenomeno globalizzante. Aristide Zolberg, in linea con tale constatazione, ritiene che gli stravolgimenti propri degli ultimi decenni del Novecento abbiano comportato un’irreversibile sparizione della classe operaia (Zolberg, 1995). Analogamente, Manuel Castells sostiene che l’avvento dell’era informatica abbia trasformato la sovranità statale e le esperienze lavorative ledendo la capacità del movimento operaio di agire come gruppo socialmente coeso in rappresentanza degli operai (Castells, 1997).

Parallelamente a queste posizioni, se ne registrano altre totalmente contrapposte che, invece, a partire dalla fine degli anni novanta, mettono in evidenza una netta ripresa dei movimenti operai in relazione alla crescente reazione contro i disagi scaturenti dalla globalizzazione: nella Francia del 1995, lo sciopero generale contro i tagli al settore pubblico segnava ufficialmente la prima ribellione contro la globalizzazione (da Le Monde). Negli Stati Uniti, si rinnova l’interesse nei confronti dei movimenti operai, in seguito a questo attivismo, con la conseguente volontà di coinvolgimento degli intellettuali nello studio del fenomeno attraverso la divulgazione di pubblicazioni ad esso pertinenti.

Data l’evidente ambivalenza delle posizioni ideologiche registrate in materia, l’autrice, al fine di palesare lo scopo principale nonché punto di partenza della sua monografia, si chiede quale fra le due attese divergenti sia la più plausibile; per poter condurre un’indagine analitica esauriente ed oggettiva, e dare un’adeguata risposta all’interrogativo sotteso all’opera in questione, è necessario ricostruire gli studi sul lavoro in un quadro di riferimento storicamente e geograficamente ampio ed articolato. A seconda della prossimità o dello scostamento da parte degli studiosi rispetto alla concezione che vede nel mondo contemporaneo un elemento di “novità storica”, sarà possibile registrare differenti valutazioni sul futuro dei movimenti operai. Nello specifico, coloro che circoscrivono tali movimenti in una fase di crisi irreversibile ed inarrestabile, ritengono che l’epoca contemporanea sia fondamentalmente nuova e senza precedenti; coloro che, invece, s’attendono una ripresa significativa dei movimenti operai considerano lo stesso capitalismo storico in termini di dinamiche ricorrenti. Dunque, le previsioni circa il futuro dei movimenti devono basarsi sul confronto tra le dinamiche contemporanee ed analoghe dinamiche emerse nel passato: in tal modo sarà possibile separare i fenomeni ricorrenti da quelli effettivamente nuovi. L’obiettivo è esplicitamente quello di distinguere, da vari punti di vista, per le agitazioni operaie mondiali, i meccanismi ricorrenti da quelli fondamentalmente nuovi e senza precedenti.

Dibattiti sul presente e il futuro dei lavoratori e dei movimenti operai.
Nelle parole dell’autrice, prima di procedere con l’esplorazione effettiva della tematica trattata, occorre analizzare due giudizi diametralmente opposti circa gli effetti che il fenomeno della globalizzazione sortisce in relazione all’istituto del movimento operaio. Da un lato, ci si chiede se i processi contemporanei di globalizzazione abbiano indebolito lavoratori e movimenti operai, innescando una “gara al ribasso” dei livelli salariali e delle condizioni di lavoro; dall’altro, ci si interroga sulla natura del fenomeno globalizzante e sulle conseguenze che ne derivano in relazione alla presunta creazione di condizioni oggettivamente favorevoli all’emergere di un forte internazionalismo operaio.

La crisi dei movimenti operai è stata spesso considerata come effetto dell’ipermobilità del capitale produttivo del tardo Novecento, che ha dato origine ad un mercato del lavoro unico caratterizzato dalla competizione individuale tra lavoratori su scala planetaria. Nell’ideologia di Jay Mazur, le aziende multinazionali hanno innalzato il livello di concorrenza tra i singoli lavoratori, mettendo sotto pressione il movimento operaio internazionale (Mazur 2000). Con tale constatazione s’intende sottolineare la drastica diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori con il conseguente ribasso dei salari. In linea con tale ideologia, secondo altri studiosi, l’ipermobilità del capitale indebolisce la sovranità dello stato e con essa la capacità di controllare i flussi di capitale, nonché la capacità di proteggere il tenore di vita dei propri cittadini e i diritti dei lavoratori. Ed ancora, un’altra spiegazione della crisi del movimento operaio si focalizza sulle trasformazioni dell’organizzazione dei processi di produzione: tali “innovazioni di processo” minano alla base il potere contrattuale dei lavoratori. Nelle parole di Craig Jenkins e Kevin Leicht, il sistema fordista di produzione di massa concorre a rinforzare e rinvigorire l’identità sociale e collettiva dei movimenti operai che, al contrario, è resa flebile ed inconsistente dall’affermarsi del sistema postfordista. Inoltre, le pressioni esercitate dalla concorrenza globale costringono i datori di lavoro ad implementare sistemi di produzione “flessibile”: ciò è causa della trasformazione della solida classe operaia in una rete di rapporti temporanei e sbrigativi (Jenkins e Leicht, 1997). Al contrario, rispetto alle aree da cui il capitale è emigrato, nei luoghi di recente investimento si assiste alla formazione ed al rafforzamento di nuove classi operaie.

Ci si interroga a questo punto, circa l’eventuale presenza di tracce di un nuovo internazionalismo della classe operaia nel processo stesso che ha portato alla crisi dei vecchi movimenti operai: in questo caso specifico la globalizzazione della produzione avviene nell’ambito di ciascun paese, piuttosto che tra diversi paesi, di conseguenza la scissione tra Nord e Sud diviene sempre meno accentuata e rilevante. Ci si avvia verso la formazione di un’unica classe di lavoratori mondiale ed omogenea, che condivide condizioni di vita e di lavoro sempre più simili, come avviene, ad esempio, nel settore di produzione globalizzata delle multinazionali.

La possibilità di sovvertire il processo produttivo mediante un’eventuale azione oppositoria collettiva deve indurre i lavoratori a riunirsi in organizzazioni transnazionali ed estese, proprio come le aziende datrici di lavoro. Anche in tale ambito di riflessione, si registrano posizioni contrapposte tra coloro che promuovono l’internazionalismo dei lavoratori, in base all’idea che solo un movimento operaio globale possa rispondere efficacemente alle sfide poste dalle istituzioni globali, e coloro che considerano essere strategia più efficace l’esercitare pressioni sui propri governi al fine di ottenere l’implementazione di politiche favorevoli ai lavoratori. In definitiva, è opportuno sottolineare quanto le tendenze contemporanee e gli orientamenti delle politiche internazionali sul lavoro siano soggetti ad interpretazioni molto differenti. Il punto di vista espresso dagli intellettuali in relazione a tali problematiche dipende, in primo luogo, dalle valutazioni delle dinamiche di lungo periodo che contestualizzano il potere contrattuale dei lavoratori nei confronti dei rispettivi governi e dei datori di lavoro.

I conflitti della classe operaia in una prospettiva storico-mondiale: quadro teorico e concettuale.
Il fatto che la situazione attuale della classe operaia mondiale sia caratterizzata da molteplici controversie circa la sua effettiva carica reazionaria ed il suo potenziale oppositorio, obbliga a considerare diverse visioni dell’impatto della globalizzazione sul potere contrattuale dei lavoratori. Pertanto, è utile esporre la distinzione operata da Eric Olin Wright tra “potere associativo” e “potere strutturale”: il primo si riferisce alle varie forme di potere derivanti dal costituirsi di organizzazioni collettive di operai; il secondo, invece, scaturisce dalla specifica collocazione dei lavoratori nel sistema economico. La prima forma citata, inoltre, subisce un’ulteriore partizione in due sottocategorie: la prima, “potere di contrattazione legato al mercato”, deriva direttamente dai mercati rigidi del lavoro; la seconda, “potere contrattuale legato al luogo di lavoro”, si configura come potere connesso alla posizione strategica di in gruppo di lavoratori nell’ambito di un settore industriale fondamentale. Questo tipo di potere contrattuale si manifesta in tutta la sua intensità e valenza nell’ambito di processi produttivi strettamente integrati ed interrelati.

Coloro che colpevolizzano il fenomeno globalizzante per aver condotto i movimenti operai verso una condizione di crisi, individuano il pericolo proprio nella capacità delle varie manifestazioni della globalizzazione di indebolire tutte queste forme di potere contrattuale dei lavoratori. Ad esempio, il potere contrattuale connesso al mercato potrebbe essere minato dalla mobilitazione di un “esercito industriale di riserva” su scala mondiale. Inoltre, tale fenomeno ha danneggiato il potere di contrattazione dei lavoratori delegittimando sindacati e partiti politici, impossibilitati, oramai, nella distribuzione di vantaggi alla classe lavoratrice per i propri diritti: si verifica un indebolimento del potere associativo di contrattazione con la conseguente erosione del potere di contrattazione legato al mercato. Una parte degli studi sulla globalizzazione e sul lavoro sostiene che la crisi dei movimenti operai sia dovuta non alle trasformazioni delle condizioni lavorative strutturali, ma ai mutamenti avvenuti nel dibattito intorno a tali tematiche: l’idea della assoluta mancanza di alternative alla globalizzazione esercita un potente effetto di smobilitazione sui movimenti operai. Nelle parole di Piven e Cloward, il processo di accumulazione del capitale su scala mondiale determina una distruzione della convinzione del potere dei lavoratori (Piven e Cloward, 2000).

L’analisi descritta nell’ambito del testo, finalizzata all’esposizione delle fasi evolutive nello spazio e nel tempo del potere contrattuale dei lavoratori in tutte le sue forme, segue due differenti teorie sull’interpretazione della relazione tra le lotte operaie e i processi attivati dalla globalizzazione: pur essendo entrambe incentrate sulle contraddizioni sociali insite nella trasformazione del lavoro in merce, l’una si focalizza sulla discontinuità temporale di tale fenomeno, l’altra sulla sua disomogeneità spaziale. In questo specifico ambito analitico, si collocano le riflessioni teoriche di Karl Marx e Karl Polanyi atte a spiegare lo sviluppo storico mondiale dei movimenti operai. Entrambi considerano il lavoro una “merce fittizia”: ogni tentativo di considerare gli esseri umani come un merce uguale alle altre non può che condurre a reazioni oppositorie violente e contrastanti. In tale contesto, la lettura interpretativa di Marx induce ad accentuare la natura a fasi delle trasformazioni nelle forme di resistenza opposta dai lavoratori caratterizzante il capitalismo storico; invece, la lettura di Polanyi mette in evidenza la natura oscillatoria di questa attesa resistenza.

L’analisi di Polanyi si basa sull’idea che l’estensione del mercato autoregolato determina un movimento di opposizione in quanto stravolge i patti sociali comunemente accettati e stabiliti che riguardano il diritto ai mezzi di sussistenza: la resistenza è quindi alimentata da un senso di “ingiustizia”. L’analisi di Marx, invece, si incentra anche sul potere nell’identificare i limiti del capitale: questo non ha alcun valore senza forza lavoro, e lo sviluppo capitalistico stesso porta ad un rafforzamento strutturale di coloro che la detengono. Da un lato, l’espansione della produzione capitalistica tende a rafforzare i lavoratori e induce il capitale a un confronto diretto e ricorrente con movimenti operai forti. Le concessioni finalizzate a tenere tali movimenti sotto controllo sono causa dell’avanzamento del sistema verso una crisi di redditività: per risollevare i profitti si determina, però, la rottura di patti sociali prestabiliti, nonché una maggiore mercificazione del lavoro con la conseguente crisi di legittimazione degli operai. Crisi di redditività e crisi di legittimazione delineano una tensione costante all’interno del capitalismo storico.
In particolare, l’osservazione secondo la quale lavoratori e movimenti operai sono continuamente costituiti e ricostituiti è utile a contrastare alcune definizioni eccessivamente rigide della classe operaia. Dunque, è necessario identificare le reazioni “dal basso” contro gli aspetti creativi quanto distruttivi dello sviluppo capitalistico: in questo libro si tenta una combinazione fra il modello di Marx e quello di Polanyi al fine di enucleare da tale fusione un’analisi oggettiva delle dinamiche di lungo periodo della classe operaia globale.

Metodi e strategie della ricerca.
La piena comprensione delle dinamiche dei movimenti operai contemporanei necessita di un’analisi di vasto respiro storico e di ampia portata geografica. Le valutazioni circa il futuro dei movimenti dei lavoratori si fondano su di un giudizio a proposito della novità storica rappresentata dal mondo contemporaneo. Coloro che pongono i movimenti degli operai in una situazione di crisi irreversibile ritengono che l’epoca attuale sia fondamentalmente nuova e senza precedenti, un’epoca in cui i processi economici globalizzati hanno completamente stravolto l’impalcatura propria della classe operaia. Al contrario, coloro che attendono un ritorno significativo dei movimenti operai attribuiscono allo stesso capitalismo storico dinamiche ricorrenti, tra cui il continuo riprodursi di contraddizioni e conflitti tra capitale e lavoro.
L’analisi descritta in questo libro si rivolge al passato alla ricerca di modelli di ricorrenza e di evoluzione, in modo da poter circoscrivere l’elemento di innovazione nella situazione che i movimenti operai si trovano attualmente a dover fronteggiare: solo attraverso questo paragone è possibile distinguere i fenomeni storicamente ricorrenti da quelli realmente nuovi e senza precedenti.

Una delle premesse metodologiche su cui si fonda l’indagine qui descritta sta nell’assunto secondo il quale lavoratori e movimenti operai situati in contesti territoriali differenti sono tra loro collegati dalla divisione del lavoro su scala mondiale e da fenomeni politici globali. Dunque, occorre capire i processi che mettono in relazione ai singoli casi su scala mondiale, sia nel tempo sia nello spazio. Ci si riferisce, nello specifico, ai processi relazionali “diretti”, che, assumendo la duplice forma di diffusione e solidarietà, comportano un’influenza dell’azione di attori sociali distanti nello spazio e nel tempo ad opera della conoscenza del comportamento degli altri e delle relative conseguenze, nel primo caso, mentre necessitano del contatto diretto e dello sviluppo di reti sociali, nel secondo; ed ai processi relazionali “indiretti” nell’ambito dei quali gli attori coinvolti non sono del tutto consapevoli dei loro legami, ma sono uniti senza saperlo da processi di tipo sistemico. L’approccio strategico proposto si basa sulla ricerca delle variazioni, analizzando come la stessa esperienza di proletarizzazione abbia portato ad esiti differenti: questo è assimilabile a quello che Philip McMichael (1990) definisce incorporating comparison (“paragone incorporante”), ovvero una strategia secondo cui le interazioni tra una molteplicità di sottounità del sistema crea il sistema nel corso del tempo. In definitiva, questo libro intende tracciare una storia della formazione della classe operaia in cui gli eventi si sviluppano in una dinamica spazio-temporale.

Al fine di attuare tale strategia di ricerca, è necessario disporre di un quadro delle forme generali della militanza operaia di notevole ampiezza storica e geografica: occorrono informazioni inerenti a tutti i casi su scala mondiale, dagli inizi del movimento operaio moderno, cioè dal tardo Ottocento, fino a oggi. Fino a pochi anni fa non esistevano dati sulle mobilitazioni dei lavoratori che coprissero un ambito storico-geografico così ampio: solo alcuni paesi industrializzati sono muniti di archivi storici degli scioperi, ed inoltre i dati statistici su questi stessi fenomeni sono stati spesso raccolti secondo criteri che escludono alcune tipologie di pratiche oppositorie ritenute secondarie.

L’indagine qui condotta può, tuttavia, avvalersi di un nuovo database concepito appositamente per superare i limiti geografici e tipologici delle fonti precedenti: è il database World Labor Group (WLG). Questo nasce dal ricorso alle maggiori testate giornalistiche come fonti di dati utili per costruire indici di protesta sociale. Il WLG, nell’elaborazione del database, fa riferimento solo al “Times” di Londra ed al “New York Times”. Dal punto di vista metodologico, i ricercatori del WLG hanno letto gli indici di queste testate dal 1870 al 1996, registrando ciascun episodio di mobilitazione operaia identificata su schede standard per la rilevazione dei dati. Sottoposto ad approfonditi studi di attendibilità, il database WLG risulta essere uno strumento valido ed efficace per identificare gli anni in cui sono stati raggiunti livelli particolarmente elevati di mobilitazione operaia in paesi specifici. La mappa fornita da questo sistema informatico è alla base dello studio della storia delle principali ondate di protesta dei lavoratori nello scorso secolo.

Augusto Cocorullo – Università degli Studi di Napoli “Federico II” – Dipartimento di Scienze Sociali – Dottorato di Ricerca in Scienze Sociali e Statistiche – XXIX ciclo

 
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U.E., al via il Semestre italiano. Matteo Renzi lancia l’ “operazione Telemaco”

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Si è da poco concluso l’intervento del premier italiano Matteo Renzi nell’aula del Parlamento Europeo a Strasburgo (FR). Apre ufficialmente il “semestre italiano” di presidenza dell’Unione Europea. Il discorso del leader PD ha strappato gli applausi dell’assemblea in seguito alle numerose citazioni storiche legate al passato ed alle relazioni culturali esistenti con la Grecia – paese dal quale l’Italia riceve, a partire da oggi, il testimone nella guida dell’Ue.
Veemente, arguta ma, al contempo, carica di partecipazione emotiva è stata la relazione d’apertura del premier Renzi a Strasburgo – per di più trasmessa in diretta tv. Un discorso che ha colpito la platea soprattutto per l’esortazione rivolta all’Europa intera affinchè si faccia molto di più per garantire un futuro alle nuove generazioni. Sotto uno sguardo attento dei suoi colleghi connazionali, fra cui Gianni Pittella (PD) in prima fila, nonché del presidente uscente della Commissione Europea Juan Manuel Barroso e del neo presidente del Parlamento Martin Schulz, le battute renziane hanno preso il via da quella fotografia che ipoteticamente tutti potremmo auto scattarci nella fase storica in corso. Un “selfie” che – come ha detto lo stesso Renzi – evidenzierebbe soprattutto noia e stanchezza. Due sentimenti che vanno cavalcati non per dire che tutti i guai nascano dall’Europa. Ma al contrario (e qui la sottile stoccata al nemico politico Grillo e M5S – ndr), è dall’Italia che deve ripartire l’intero sistema. Un riferimento anche alla nuova situazione politica che si sta vivendo nell’aula del Parlamento neo eletto, con le nuove “famiglie” e schieramenti che si vanno componendo nell’assemblea di Strasburgo. In particolare è con i problemi concreti, però, che bisogna iniziare a fare i conti, sfruttando al meglio le reali potenzialità di un continente che “non si indigna” di fronte a tragedie come quella degli immigrati del nord Africa che muoiono ogni giorno sui barconi nel Canale di Sicilia; che “non si indigna” davanti alla prigionia di cristiani nelle lontane terre del Medio Oriente, trattenuti per il solo fatto di non essere islamici; che “non si indigna” se una donna è costretta a partorire senza le giuste forme d’assistenza di un paese democratico solo per motivi ideologici (cit.).
Il personaggio dell’antica mitologia greca di Ulisse ha affascinato generazioni intere di studenti. Ora, raccogliendo l’eredità della Grecia alla guida dell’Unione, è giunto il momento di passare alla fase 2, con l’ “operazione Telemaco”. Dal nome del figlio del re di Itaca eroe dell’Odissea, che ebbe all’epoca il duro compito di ricercare il padre e l’identità perduta di un popolo, ecco quindi la sottilissima metafora culturale con cui Matteo Renzi ha voluto chiudere il suo discorso di insediamento ed inaugurare il semestre italiano. Nella storia e nell’epica classica noi come penisola italica tramandammo le radici di Enea e Anchise con l’emergere della potenza di Roma. Oggi l’Europa deve fare lo stesso, ripartendo da un passaggio di consegne che non è solo greco-italiano (quanto alla presidenza Ue). A variare, nei primissimi mesi dell’Agenda italiana, saranno infatti anche il presidente della Commissione, con il tedesco J.P. Juncker in pole position, oltre che l’Alto Rappresentante per la Politica Estera e il leader del Consiglio Europeo. Insomma un totale cambiamento di rotta, nel segno di quel 40 % di uno dei partiti più votati – quello di Renzi appunto – che si eleva così a guida della nuova Europa verso gli obiettivi di stabilità e crescita ancora non raggiunti.

 

Francesco Pascuzzo

 

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1914-2014, L’Europa affronta il suo “esame di maturità”

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Cent’anni fa nessuno auspicava di certo una traccia del genere, nelle scuole di tutta Italia. Una fra quelle prescelte dal Ministero dell’Istruzione per la prima prova dell’esame di Stato 2014 come tema storico – tipologia C – riguarda appunto il confronto fra il vecchio continente com’era allo scoppiare della prima guerra mondiale e quello odierno. Ma l’Europa ha realmente passato il suo “esame di maturità” ?

Gli studenti più ferrati su questa materia saranno in grado di dare il loro responso a questa bella domanda. La memoria riporta allo scorso anno, quando per la stessa tipologia di tema d’esame Pigs e Brics furono croce e delizia di alunni ed insegnanti. Nessuno ancora ci ha fatto i conti, ma la grave carenza di informazione sulle tematiche europee – che rappresentano pur sempre parte della storia contemporanea – è sembrata sussistere nel 2013 nella maggioranza delle scuole italiane, specialmente quelle della provincia più remota.

Ebbene, per il secondo anno di fila è l’Europa a spopolare fra tutte le possibili tracce storiche ministeriali. Il raffronto fra la Grande Guerra, di cui a breve ricorrerà l’anniversario dello scoppio (28 giugno 1914 – 28 giugno 2014), è non a caso l’oggetto della prima prova della maturità di quest’anno. Cento anni fa nessuno avrebbe mai pensato a quel che dopo ben due conflitti mondiali sarebbe potuto accadere in Europa. Dall’assassinio dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando d’Asburgo a Sarajevo nel 1914 è scattata infatti una scintilla che avrebbe di lì a poco cambiato per sempre gli equilibri geopolitici del continente. Le grandi potenze centro europee (Austria e Germania) videro ridimensionate fortemente le proprie ambizioni, dopo la sconfitta. Il blocco occidentale vittorioso, con l’adesione degli Stati Uniti, avrebbe portato poi alla Società delle Nazioni, soppiantata dopo la seconda guerra mondiale dall’attuale ONU. L’Europa, dal canto suo, avrebbe iniziato ad assumere connotati di una vera e propria Istituzione di diritto internazionale solo negli anni ’50. Da oltre due mesi vediamo in tv spot pubblicitari che recitano lo slogan “Di Europa si deve parlare!”. Allora vuol dire che qualcuno finalmente se n’è accorto e che gli stessi studenti – magari quelli più avveduti – potrebbero durante la loro prova d’esame testare le reali capacità della società attuale di confrontarsi con l’argomento Europa così com’è oggi.

Strano ma vero! Gavrilo Princip (lo studente serbo che uccise l’arciduca d’Austria a Sarajevo nel 1914 – ndr) costituisce la chiave di volta per capire l’Europa che sarebbe venuta di lì ai seguenti cent’anni. Russia, Impero Ottomano, Italia alle prese con il completamento dell’unità nazionale, Germania, Austria, Usa, Gran Bretagna, Francia e altri Stati aderenti all’uno o all’altro blocco hanno quindi scritto le sorti del mondo e dell’Europa stessa. Sorvolando su tutto quanto accaduto nel mezzo, magari con un cenno alle contrastanti idee d’Europa seguenti ad Alcide De Gasperi ed Altiero Spinelli a cavallo fra anni ‘40 e ’50 del Novecento, oggi ci si ritrova con un continente alle prese con un problema d’identità.

Se nel 1914 era l’identità nazionale a vacillare di fronte all’imperialismo sovietico, turco, austro-tedesco, adesso invece il gigante dai piedi d’argilla che è l’Unione Europea è messo alla prova da tantissimi “esami di maturità”. Quali ? Eccone un rapido elenco, auspicabile quale punto di vista assunto da parte di quegli studenti che sceglieranno la traccia C.

La questione del gas dalla Russia, dopo l’annuncio delle ultime ore del colosso Gazprom di voler tagliare le forniture di metano all’Ucraina e, quindi, a tutta l’Europa. Dove e come approvvigionarsi di fonti energetiche alternative è la prova di maturità dell’Europa oggi. La “guerra del gas” che segue alla (seconda) guerra di Crimea, insomma. Altra vicenda, l’immigrazione clandestina. Frontex, Mare Nostrum, sono solo nomi dietro i quali l’Ue si sta celando lasciando in concreto la patata bollente all’Italia in quanto Stato. Il Ministro dell’Interno Angelino Alfano ha quindi dichiarato pubblicamente di voler sospendere il programma d’accoglienza se l’Europa non darà prova di maturità, ancora, sul fronte immigrazione dal nord Africa.

Integrazione, scambi giovanili, Erasmus e altri simili, ecco un altro terreno minato dove pochi mesi fa l’Ue ha tentennato per motivi economici, mettendo a rischio i sogni di milioni di studenti desiderosi di viaggiare e confrontarsi con altre realtà lavorative attraverso esperienze internazionali. Poi, a seguire : crisi economica, stop all’Euro, tassi d’interesse, Unione bancaria, Federazione Europea. Tutti temi che le istituzioni dell’Ue, l’indomani delle elezioni per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo, stanno lentamente affrontando ma senza concrete soluzioni di breve periodo.

Insomma, mentre agli studenti di tutta Italia basteranno solo sei ore per mettere nero su bianco le reali possibilità di svolta per l’Europa di oggi confrontandola con quella di cent’anni fa, cosa farà l’Unione nei prossimi mesi – per di più i mesi del “semestre italiano” ? L’Europa a cent’anni dalla Grande Guerra ha davvero superato il suo esame di maturità ???

di Francesco Pascuzzo

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MOSE, EXPO….E POI??? LAGUNA VENETA, GRAVI VIOLAZIONI DI DIRETTIVE UE SU AMBIENTE ED APPALTI

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Quando ci sono di mezzo gli appalti pubblici è sicuro che, qualsiasi essa sia, la bomba farà sempre notizia. Specialmente in Italia, paese ormai additato da tutta Europa come patria di ladri e imprenditori senza scrupoli dediti al malaffare. Politica corrotta, tangenti, appalti truccati e persino violazioni di quanto disposto dall’Ue e recepito dallo Stato italiano, ecco la costante di un paese ormai alla deriva.

I disonesti cercano sempre di farla franca. “Siamo furbi che più furbi di così si muore” canta Luciano Ligabue nella sua recente Il sale della terra. L’indignazione popolare cresce fra gli italiani onesti, per una società che fa notizia sempre e solo per fatti criminali e corruzione a tutti i livelli dalla macchina amministrativa. Smascherata dalla Procura di Venezia la cupola degli appalti per il Mose – ovvero il sistema di dighe e chiuse che avrebbe dovuto evitare il fenomeno dell’acqua alta nel capoluogo veneto – ecco aprirsi un mondo davanti agli investigatori, ma anche davanti ai fortunati giornalisti che seguiranno direttamente l’inchiesta. Super testimoni, come la segretaria del leader della ditta Mantovani principale indiziata – capofila di quell’incriminato “Consorzio Venezia Nuova” che avrebbe tessuto le fila della rete di appalti truccati e di tangenti versate a pubblici funzionari. Insospettabili che allo stato attuale starebbero intentando improbabili querele ai danni dei loro presunti traditori, di coloro che avrebbero fatto il loro nome. Dal sindaco di Venezia Giorgio Orsoni al presidente della Regione Veneto Giancarlo Galan. Dagli appalti lagunari alle connesse opere per il passante stradale di Mestre (Ve) e per gli ospedali locali, tutto è finito nel calderone della mega inchiesta veneziana. Lo stesso Expo Milano 2015 non è al di sopra di ogni sospetto, anzi le grandi opere – che a livello comunitario vogliono dire anche “grandi deroghe” quanto al regime contabile – agguantano come una piovra tutti i protagonisti, volenti o nolenti, che ci siano finiti dentro per chi sa quali oscure ragioni. Ora spetta ai magistrati chiarire l’intricata vicenda veneta, mentre a vigilare sulle insidiose gare d’appalto milanesi per l’Expo del prossimo anno sarà l’illustre giudice Raffaele Cantone alla guida dell’Autorità Garante Anticorruzione. L’illecito ambientale, tornando al caso Mose, è dietro l’angolo. Vicinissimi al nuovo reato di “disastro ambientale” come avvenuto in Campania con la “terra dei fuochi”, il caso Venezia riporta al lontano 1997, quando lo stesso Ministero dell’Ambiente vietò l’avvio di determinati cantieri in Laguna. L’Unione Europea aveva emanato già anni addietro delle normative sull’habitat e sulla fauna selvatica di determinati ecosistemi. Tenendo conto della situazione di alta insalubrità delle acque di Porto Marghera, nella laguna, dovuta ad anni e anni di attività del complesso petrolchimico attivo nella zona, è ancora più grave la violazione delle precedenti Direttive Ue recepite dagli Stati membri. In spregio a qualsiasi valutazione di impatto ambientale e di controllo sulle grandi opere è insomma venuta fuori, in questi giorni, un’abominevole violazione delle leggi vigenti, a partire dal nuovo Codice Ambiente del 2006. Il tutto nel quadro generale di strane procedure d’appalto, sempre più private e sempre meno ad evidenza pubblica come prescritto dalla legge.

Francesco Pascuzzo
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Ruth Milkman L.A. Story: Immigrant Workers and the Future of the U.S. Labor Movement

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Biografia

Ruth Milkman (nata il 18 dicembre 1954) è docente di sociologia presso il CUNY Graduate Center e presso il Joseph F. Murphy Istitute for Worker Education and Labor Studies, del quale è anche Direttore Accademico. Laureatasi nel 1975 presso la Brown University, la Milkman consegue un Master of Arts in sociologia nel 1977 e un dottorato di ricerca in sociologia nel 1981, entrambi presso la University of California a Berkeley. Nel 1981, R. Milkman è nominata assistente, poi professore associato di sociologia presso il Queens College e il CUNY Graduate Center di New York. Nel 1986, insegna storia del lavoro americano presso l’Università di Warwick a Coventry, Regno Unito, professore incaricato presso l’Università di São Paulo in São Paulo, in Brasile nel 1990, visiting research scholar presso Macquarie University di Sydney, in Australia nel 1991, e visiting research associate presso il Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi nel 1993. Ha ottenuto un incarico come professore associato alla UCLA nel 1988, dove è ora docente ordinario di sociologia. È stata nominata direttore dell’UCLA Institute of Industrial Relations nel 2001. Dal 2001 al 2004, la Milkman è stata anche direttrice dell’UC Institute for Labor and Employment.

 

Abstract

Le opere della Milkman si incentrano prevalentemente sulla Sociologia del Lavoro, con uno spiccato interesse per il movimento operaio americano e per la storia del lavoro. L’autrice dedica numerose pubblicazioni all’analisi delle condizioni dei lavoratori a basso salario e delle donne lavoratrici, contestualizzando le diverse opere nel quadro teorico del socialismo. Pubblicato nel 2006, L. A. Story rappresenta un caso di studio di quattro “campagne di sindacalizzazione” (organizing campaigns[1]) di Los Angeles in California, mediante il quale l’autrice perviene ad alcune notevoli conclusioni. In primo luogo, la Milkman sostiene che l’emergere di sindacati relativamente innovativi, come il Service Employees International Union (SEIU), Unit Here ed United Food and Commercial Workers, sia di notevole importanza così come la creazione del Congresso delle Organizzazioni Industriali (Congress of Industrial Organizations) nel 1935.

In secondo luogo, l’analisi delle quattro “campagne di sindacalizzazione” di Los Angeles induce la Milkman a sostenere la tesi della maggiore efficacia della strategia organizzativa propria del modello top-down. Infine, l’autrice afferma che il principale fattore determinante il fallimento delle campagne di sindacalizzazione è costituito dalla mancanza di risorse (economiche ed umane) piuttosto che dall’opposizione del datore di lavoro, da fattori giuridici o dal mancato utilizzo di buone tattiche organizzative.

L. A. Story ha suscitato un dibattito nell’ambito della comunità accademica e del movimento sindacale, in relazione a due aspetti specifici. In primo luogo, le conclusioni cui l’autrice perviene, in materia di impostazione delle campagne di sindacalizzazione secondo le caratteristiche proprie del modello top-down, si ricollegano al filone del new labor history, secondo il quale i lavoratori non dovrebbero essere solo “oggetto di ricerca accademica”, ma in realtà costituirebbero l’aspetto più importante dei movimenti sindacali. In particolare, le conclusioni cui la Milkman giunge, sono assimilabili, in quanto ad ideologia ad esse sottostanti, alla prospettiva istituzionalista ed allo storicismo hegeliano, correnti proprie di alcuni teorici del lavoro, quali Selig Perlman, Philip Taft e John R. Commons. Le scoperte dell’autrice si discostano in misura significativa anche dalle conclusioni di altri studiosi, come Brofenbrenner e Juravich, i quali sostengono che ad una maggiore partecipazione dei lavoratori alle campagne di sindacalizzazione corrisponde un più alto grado di successo del sindacato stesso.

 

L.A. Story: Immigrant Workers and the Future of the U.S. Labor Movement

 

La netta diminuzione dell’appartenenza sindacale dei lavoratori attuatasi negli ultimi cinquant’anni ha indotto molti a considerare il lavoro organizzato come irrilevante nell’ambito del mercato del lavoro dell’epoca contemporanea. Nel settore privato, solo una minima parte dei lavoratori risulta essere attualmente iscritta ad un sindacato. Tuttavia, gli sviluppi verificatisi nel sud della California, inclusi i successi ottenuti dal movimento Justice for Janitors, suggeriscono che i report sulla scomparsa del lavoro organizzato potrebbero essere distorti, non rispecchiando la reale situazione. L’autrice spiega come Los Angeles, un tempo nota come città ostile alla società del lavoro, sia diventata un “focolaio di sindacalismo”, e come i lavoratori immigrati siano emersi come leader inverosimili nella battaglia per i diritti dei lavoratori.

L. A. Story infrange molti miti sul lavoro moderno, mediante un’analisi approfondita della situazione dei lavoratori di Los Angeles di quattro settori specifici: manutenzione degli edifici, autotrasporti, costruzioni, abbigliamento. Nonostante molti denuncino la “de-sindacalizzazione” ed il peggioramento delle condizioni lavorative degli immigrati, la Milkman, tuttavia, dimostra che questa credenza convenzionale è totalmente errata. La sua analisi rivela che il peggioramento degli ambienti di lavoro precede l’afflusso di lavoratori stranieri, i quali hanno occupato tali posizioni lavorative solo dopo che i lavoratori autoctoni hanno abbandonato questi posti di lavoro improvvisamente divenuti poco desiderabili.

Inoltre, L. A. Story dimostra che i lavoratori immigrati, ritenuti incapaci di organizzarsi in sindacati da molti dirigenti sindacali, a causa dei limiti imposti dalla lingua e del timore dell’eventuale deportazione, si sono invece rivelati estremamente sensibili agli sforzi organizzativi. Come argomenta la Milkman, questi lavoratori affrontano il lavoro con un’impostazione mentale maggiormente orientata alla collettività, al “gruppo”, rispetto ai lavoratori americani da essi sostituiti. L’affermarsi di tali caratteristiche, proprie dell’apparato lavorativo di Los Angeles, ha reso tale città il fulcro del movimento per i diritti dei lavoratori.

L’autrice delinea un percorso storico del “sindacalismo di massa”, a partire dai primi sviluppi di questo sistema nel contesto degli Stati Uniti, fino alla spiegazione dei motivi del suo declino. I punti cardine in questo processo sono collocabili nella Grande Depressione, nella nascita del sindacalismo industriale di massa e nella tutela giuridica offerta dal National Labor Relations Act.

In particolare, prima della Depressione, negli Stati Uniti, i sindacati lottavano per la sopravvivenza in un contesto legale generalmente ostile, mediante l’utilizzo di un repertorio di tattiche estremamente vario, tra scioperi, boicottaggi e campagne, al fine di ostacolare l’operato dei datori di lavoro ed ottenere aumenti di stipendio. Successivamente, nel periodo della Grande Depressione, è emersa una nuova forma di sindacalismo industriale a partire dal malcontento e dal senso di solidarietà dei lavoratori di settori industriali specifici, frutto dell’esperienza comune di quel difficile momento storico. In seguito, tali sindacati industriali sono stati estesi sia nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, in un ambiente caratterizzato dalla volontà da parte del governo di creare un clima sereno e pacifico dal punto di vista sociale, sia nel dopoguerra con la legislazione sul lavoro approvata nel 1930. Il declino di questi sindacati tra il 1980 ed il 1990 riflette le crescenti pressioni competitive prodotte dagli sviluppi della tecnologia, dalle liberalizzazioni, dal commercio estero e, motivo principale nella trattazione della Milkman, il mutamento attuatosi nella legge sul lavoro e, ancor più, il modo in cui la legge è stata applicata ed interpretata, indebolendo sensibilmente la protezione da parte del governo.

Tutti i casi di studio dell’autrice sono tratti dall’insieme di industrie storicamente organizzate sotto i vecchi sindacati AFL, che precedono la Grande Depressione e che ancora oggi sono costituiti da numerose piccole imprese instabili. In queste industrie l’organizzazione del lavoro è sempre esistita, anche al di fuori del guscio protettivo di una legislazione in materia di lavoro. I sindacati hanno mantenuto un’organizzazione industriale sfruttando i legami economici lungo la “catena di fornitura”, per disciplinare i datori di lavoro non ottemperanti, ed i cui dipendenti non avevano potuto reagire direttamente ad eventuali inadempienze: essi hanno imparato a sfruttare questi legami attraverso lo sviluppo di una conoscenza approfondita della struttura propria di quel determinato settore industriale. In tal modo, il Teamsters Union, il sindacato degli autotrasportatori, è stato in grado di organizzarsi nel Sud della California assieme alle imprese del Nord che trasferivano navi cargo al Sud: i lavoratori sindacalizzati del Nord hanno costretto i loro datori di lavoro a boicottare le imprese meridionali che non avevano firmato il contratto sindacale. Analogamente, il Ladies’ Garment Union, il sindacato di dimensioni relativamente grandi delle produttrici tessili, ha minacciato di colpire chi non avesse imposto termini comparabili sui loro subappaltatori.

Nel settore edile, gli artigiani qualificati, e quindi dotati di una propria forza lavoro, hanno boicottato i posti di lavoro nell’ambito dei quali i lavoratori non qualificati, e quindi più deboli, e agli addetti alla manutenzione non si erano riuniti in sindacati. Nelle parole della Milkman, questi sindacati più antichi prosperarono negli anni Novanta, facendo rinascere queste tattiche tradizionali, sia che le abbiano desunte dal passato, sia che le abbiano riscoperte in simili circostanze strutturali.

L’opera della Milkman si focalizza sulla descrizione della militanza sindacale, caratterizzata dalla solidarietà delle comunità di lavoratori immigrati e dalla loro tendenza al sacrificio, al fine di attuare con successo i propri piani strategici in difesa dei propri diritti. I sindacalisti e, in effetti, la maggior parte degli osservatori esterni, hanno sottovalutato questo gruppo di lavoratori, considerando la forza lavoro degli immigrati, da un lato, troppo vulnerabile per potersi organizzare in sindacati in modo efficace, temendo la prospettiva della deportazione; dall’altro, troppo poco impegnata nel mercato del lavoro statunitense per poter richiedere interventi di sindacalizzazione.             Inoltre, è pensiero comune che gli immigrati, abituati a vivere in condizioni di miseria economica e di degrado sociale, siano più tolleranti nei riguardi dei salari, spesso irrisori, e delle condizioni di lavoro, palesemente disagevoli, respinte dai lavoratori autoctoni. A tal proposito, l’incremento del fenomeno migratorio è considerato come una delle cause principali del peggioramento delle condizioni lavorative, in termini anche economici. Tuttavia, la Milkman sostiene che, nell’ambito delle industrie dalle quali attinge i suoi casi di studio, gli immigrati non costituiscono la causa della de-sindacalizzazione, ma il risultato. Nel momento in cui si è attivato un processo di indebolimento della struttura portante dei sindacati, e di deterioramento delle condizioni lavorative nelle industrie, i posti di lavoro hanno iniziato a perdere la  loro forza d’attrazione per i lavoratori autoctoni, spingendo questi ultimi a spostarsi in settori che avevano mantenuto la propria organizzazione interna (autotrasporti a lungo raggio ed edilizia commerciale), lasciando un vuoto nei settori interessati da tale involuzione in termini di condizioni lavorative generali (autotrasporti locali ed edilizia residenziale), successivamente colmati dai lavoratori immigrati reclutati proprio per riempirli. Nel corso del tempo, questi operai  si sono stabiliti in modo permanente nel nuovo contesto industriale, ed il potere derivante dalla forza lavoro degli immigrati  è attualmente detenuto da lavoratori con un impegno a lungo termine nel mercato del lavoro degli Stati Uniti e dai loro figli. Le comunità di immigrati, inoltre, si caratterizzano per avere strette reti sociali che facilitano il reclutamento di nuovi membri, da un lato, e forniscono un forte sostegno morale e materiale per scioperi e boicottaggi, dall’altro.

In tale contesto d’analisi delle caratteristiche del lavoro degli immigrati, la Milkman affronta un tema centrale del pensiero contemporaneo sociale americano: la diminuzione del capitale sociale e la crescente anomia nella struttura della società americana. Nell’ideologia dell’autrice, la città di Los Angeles costituisce un esempio emblematico di questi stravolgimenti attuatisi nella società americana: l’impostazione tipica delle comunità di immigrati, in termini di propensione ad un atteggiamento solidale e complice nei riguardi dei propri connazionali, si configura come ulteriore strumento atto ad innescare un processo di rivalutazione e rinnovamento dei sindacati.

In particolare, solo due dei quattro casi analizzati hanno realmente esito positivo, ottenendo risultati rilevanti:  la nota organizzazione Justice for Janitors ed i Dry Wall Carpenters. Invece, l’organizzazione degli autotrasportatori locali ed il tentativo di istituire sindacati per alcune industrie specifiche, come inizio di una campagna atta a rilanciare il sindacalismo nel settore dell’abbigliamento, risultano essere entrambi falliti. I numeri relativi alle due compagne di sindacalizzazione di successo sono relativamente piccoli: circa un milione di membri appartenenti ai sindacati di Los Angeles. Questo si configura come il dato più alto mai registrato, nonostante costituisca soltanto il 15% della forza lavoro totale. Il tasso più alto di appartenenza sindacale si registra  nel settore pubblico, nella produzione su larga scala, in particolare nell’industria automobilistica e nell’ambito delle compagnie aeree.

La Milkman, pertanto, sostiene che il fenomeno migratorio possa contribuire alla rinascita del movimento operaio, giungendo ad argomentare un problema di non semplice ed immediata risoluzione: nonostante le industrie nelle quali si concentra un numero elevato di lavoratori immigrati siano particolarmente sensibili e vulnerabili rispetto alle tattiche organizzative dei sindacati, e nonostante gli stessi immigrati risultino inclini all’istituzione di movimenti sindacali, tuttavia quasi la metà delle campagne di sindacalizzazione sfociano in esiti negativi. L’autrice cerca di fornire al lettore gli strumenti ed i presupposti metodologici atti ad indirizzarlo verso una spiegazione valida ed efficace del problema.

Attraverso l’analisi dei dati e dei risultati delle ricerche esposte dalla Milkman, è possibile articolare talune congetture configurabili come possibili risposte alla questione del fallimento delle campagne di sindacalizzazione.

In particolare, nell’ambito della maggior parte dei vecchi sindacati AFL, non vengono esplicitate, né concettualizzate, modalità e tecniche di potenziamento e conservazione delle pratiche di pressione economica in un contesto legale ostile. Le due campagne che si sono concluse con successo sono state condotte da sindacati operanti in una forma di giurisdizione tradizionale, sviluppando un’approfondita conoscenza del settore industriale di riferimento, necessaria per incrementare la partecipazione dei lavoratori.   Ciò nonostante, la campagna degli autotrasportatori  non è stata condotta esclusivamente dalla Teamsters Union, ma anche dagli addetti alla comunicazione, operando in tal modo al di fuori della propria giurisdizione canonica, nell’ambito di in un settore del quale non possedevano una conoscenza specifica.

Questa strategia mista di sindacalismo, che suggerisce l’organizzazione delle linee di settore laddove sembra possibile raccogliere nuovi membri, può rivelarsi un metodo efficace per la sopravvivenza dei movimenti sindacali, nonostante sia complesso valutarne la validità nel lungo periodo. Tale metodologia strategica, qualora dovesse affermarsi come definitiva e predominante, sarà tuttavia distante rispetto alla forma canonica del sindacalismo industriale precedente. L’autrice incentra la sua attenzione proprio sul concetto di organizability (“organizzabilità”) delle comunità immigrate.

 

 

Augusto Cocorullo – Università degli Studi di Napoli “Federico II” – Dipartimento di Scienze Sociali – Dottorato di Ricerca in Scienze Sociali e Statistiche – XXIX ciclo

 

[1] Secondo l’Agricultural Labor Relations Act, i lavoratori agricoli hanno il diritto di eleggere un rappresentante per negoziare, a suo nome, con il proprio datore di lavoro, in materia di salari, ore e condizioni di lavoro. Mediante una votazione a scrutinio segreto, i lavoratori agricoli scelgono se istituire o meno un sindacato che li rappresenti nelle pratiche di contrattazione con il datore di lavoro. La “campagna di sindacalizzazione” (organizing campaign) si attua prima delle elezioni. Durante tale campagna, sia il datore di lavoro che il sindacato condividono informazioni con i lavoratori, in modo che essi possano scegliere consapevolmente chi votare nell’ambito dell’elezione.
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Penisola sorrentina: un Comune Unico?

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L’orizzonte comune, a cui la genesi di un Comune Unico della Penisola Sorrentina dovrebbe – per sua stessa natura – tendere, è quello del benessere comune.
Solo posto questo a fondamento di un tale, ed ambizioso, progetto, può rendersi concreta questa idea, apparentemente lontana ed utopica come realizzazione, ma ferma e vicina come volontà.
Il perseguimento del benessere comune deve, dunque, da un lato mirare a tutelare i diritti dei cittadini (salute, trasporto, istruzione, giustizia, etc.), dall’altro puntare allo sviluppo delle principali fonti di reddito di un certo territorio, che – in penisola sorrentina – sono sicuramente il settore turistico e quello agro-alimentare.
Intendendo in tal modo il benessere comune, è ovvio domandarci quale sia il miglior mezzo per il suo raggiungimento.

È a questo punto che entra in gioco quello che sembra essere il progetto non solo di quanti vogliano perseguire il bene comune, ma anche di quanti si sentano concittadini di un unico e meraviglioso territorio: la creazione di un Comune Unico, un territorio di 65 km2, più grande quindi della stessa Salerno, tra i più belli al mondo.
Se, come detto all’inizio, il perseguimento del bene comune si regge, indubbiamente, sulla garanzia di dignitosi servizi pubblici ai cittadini (oggi così tanto oberati da tasse che non si capisce dove vadano a finire), la creazione di un Comune Unico andrebbe proprio in tal direzione.
Difatti, l’irrilevanza politica che caratterizza la penisola sorrentina – soprattutto se confrontata con l’importanza, anche nazionale, che ha assurto, ad esempio, il Comune di Salerno grazie al suo sindaco De Luca – non permette ai singoli Comuni di avere una rilevanza tale da consentire fondi adeguati per l’erogazione di decenti servizi pubblici.
La situazione politica risulta ancor più notevole se si considera il particolare assetto istituzionale, che – di necessità – si verrà a creare: la definitiva abolizione delle Province sarà probabilmente un risultato dei prossimi Governi. I livelli – europeo, nazionale, regionale, provinciale, comunale – sono decisamente troppi e, di certo, il meno importante è proprio quello provinciale.
Se la situazione prendesse effettivamente questa direzione, la creazione di un Comune Unico, il secondo dunque in Campania, sarebbe un fatto di assoluta rilevanza, non solo storica, ma anche economica.
In sintesi, un Comune Unico così strutturato potrebbe avere la forza politica per riuscire, finalmente, non solo ad evitare tagli (sinonimi di declassamento socio-politico, come avvenuto per il Tribunale di Sorrento), ma a raggiungere nuovi obiettivi economici per il deciso miglioramento dei servizi pubblici.

Tassello fondamentale di questo mosaico unitario deve, di certo, essere la creazione di un’adeguata rete di trasporti: essa avrebbe la funzione non solo di connettere ogni punto, e quindi ogni cittadino, della penisola, ma anche di rendere ai turisti più accessibili diversi posti nel contesto della Penisola, potendo in tal modo raggiungere, ad esempio, le eccellenze gastronomiche, spesso situate in località non propriamente a portata di mano.
Prima di analizzare l’utilità di un Comune Unico per il turismo peninsulare, occorre un brevissimo cenno alla situazione turistica italiana: difatti, pur in un contesto globale di estremo aumento del numero di turisti all’anno (stranieri ovviamente, specie dalla Russia e dalla Cina), l’Italia in generale sta conoscendo un brusco calo, riuscendo a raggiungere solo una piccola fetta della torta di turisti in viaggio ogni anno.
In poche parole, perché l’Italia, un tempo saldamente in vetta alle mete preferite dai turisti, oggi arranca nelle classifiche dei turisti ospitati?
La risposta non è difficile: mancanza di servizi pubblici, inadeguato supporto tecnologico, insufficiente marketing digitale, qualità non sempre adeguata ai prezzi.
Questi sono alcune delle cause che portano moltissimi turisti a preferire altre mete.
È pensabile che singoli Comuni (penso al mio Comune, ad esempio, Vico Equense) riescano da soli a sopperire a queste carenze ed a cambiare la rotta? È francamente molto difficile.
Un Comune Unico che porti, invece, alla razionalizzazione economica ed al reindirizzo delle risorse verso la creazione di connessioni, tanto reali quanto virtuali, sarebbe decisamente la miglior risposta al declino turistico italiano.

In conclusione, è sinceramente auspicabile la creazione di un comitato, politicamente trasversale, che punti, dapprima, ad una consapevole informazione circa le prospettive socio-economiche di un sì costituito Comune ed, in seguito, all’informazione dei cittadini sui possibili vantaggi che una scelta, di così ampia portata, comporterebbe.

Raffaele Vanacore
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Cosa fare?

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Il diradarsi del profilo politico italiano, ormai intrecciato a quello europeo,consente una chiara definizione dello stesso: da un lato, infatti, sembrano cristallizzarsi quelle forme monostatiche – e quasi indistinguibili – di “governi delle larghe intese”. Essi, in altre parole, rispecchiano nient’altro che vecchie forme partitiche – per non dire vecchi centri di potere – non più in grado, per il loro stesso fallimento, di assicurarsi da sole il potere. Ecco che allora necessitano l’una dell’altra per alimentare il proprio potere, spesso così ben radicato nei più profondi, quanto nei più superficiali, gangli istituzionali dei vari Paesi. Il collante di queste proposte, differenti spesso solo per il colore dei simboli, in quanto esse stesse vittime di un’osmosi incontrastabile, per sua natura liquida, non è nient’altro se non l’ideologia economica, che – in conseguenza dello sradicamento della cultura come forma politica – si è radicata, ipso facto, come fondamento di ogni politica. La divisione politica non è più culturale, è economica. Questo concetto può non sembrare nuovo – di certo è di matrice marxista – ma si rivela di assoluta rilevanza se posto in relazione con l’evidenza che partiti, pur culturalmente diversi, sono ormai economicamente armonizzati. È per tale motivo, dunque, che la battaglia politica futura si svolgerà su basi economiche.

Difatti, se da un lato – come visto – l’orizzonte politico è occupato da questo monolitico, ma fluido, blocco autocratico, dall’altro lato si levano all’orizzonte nuove forme di nazionalismi egoistici e di razzismi xeno-omofobi. Essi sfruttano – come già Altiero Spinelli ricordava nella sezione del Manifesto dedicata alla formazione degli Stati Uniti d’Europa – “le tendenze atavistiche latenti nell’animo umano” e lo Spinelli scopriva, con lucida lungimiranza e franchezza, che questo “è in realtà un docile strumento in mano alle ristrette caste veramente dominanti ed è adoperato per sottomettere altri popoli” (ibidem). Ora, svelata la natura viziata – perché cognitivamente fondata e socialmente sfruttata – dei nuovi razzismi, ricordato che i fascismi nacquero come risposta di queste classi dominanti all’avanzare delle rivendicazioni socialiste (), posto a fondamento dell’azione politica sincera la creazione – in senso francofortese – di una “società senza sfruttamento”, si impone l’esigenza di una politica altresì fondata. L’evidenza che tanto il monocratico blocco delle “larghe intese” quanto i nuovi razzismi sono “in mano alle ristrette caste veramente dominanti” e che – per compiacere i loro interessi – praticano una politica economica di stampo schiettamente neoliberista, il cui unico scopo è quello di una ridistribuzione bottom-up della ricchezza ed il cui unico risultato – non imprevedibile – è stato la creazione di una società estremamente diseguale, suggerisce – in un’ottica di scontro economico, come delineato all’inizio – la genesi di un movimento con nuove basi economiche.

A fondamento di questa sfida politica all’economia neoliberista andrebbe posta una seria ricerca socio-economica che crei le fondamenta per un nuovo tipo di società. Ad esempio, sia la vecchia concezione keynesiana di fondi statali all’economia per stimolare la crescita – per la constatazione che gran parte di questi fondi finiscono in mano a capitali monopolistici con gli unici risultati di arricchire questi ultimi e di aumentare il debito pubblico – sia la concezione della tassazione come redistribuzione della ricchezza – per il medesimo fatto: i soldi delle tasse vanno a finanziare spesso abili gruppi finanziari (vedi) – impongono la ricerca di strade alternative per lo sviluppo e per la creazione di lavoro. Ad esempio, è possibile riconoscere perché il debito pubblico è aumentato, svelando i colpevoli e liberando così i singoli Paesi dall’obbligo di ripagare i debiti così contratti? Ancora, perché non parlare – oltre che di riduzione del debito – di aumento del Prodotto Interno Lordo, investendo nelle tecnologie e nel capitale umano? Questi, certo, sono solo modesti e banali esempi, ma devono servire per chiarire le vie da percorrere.

Per riuscire a sviluppare al massimo questa ricerca socio-economica occorre che tale movimento sia profondamente radicato nelle università, non solo in quelle economiche (che, tuttavia, sono largamente dominate da una cultura neoliberista, in massima parte espressione della Scuola di Chicago), ma anche, e soprattutto, in quelle di scienze sociali (vedi). In poche parole, la cultura in senso lato, la ricerca sociale insomma (vedi), dovrebbe essere il presupposto della formazione di questo movimento (come è avvenuto in Spagna con il movimento Podemos, per intenderci).

Un movimento così formato, poste queste basi economiche e la ricerca socio-economica come suo fondamento, dovrebbe poi dispiegarsi nella società. A questo punto – per affrontare il problema di primaria importanza, ossia la creazione del consenso – viene sicuramente in aiuto la tecnologia. Così come Roosevelt riuscì a creare un consenso – nonostante gli attacchi anche personali a lui e Keynes – potendo poi applicare quel New Deal che fece risollevare gli americani dalla devastante crisi del ’29, “entrando nelle case” grazie alla radio, ecco che, per applicare questo New Deal europeo, bisogna “entrare nelle case” degli italiani per spiegar loro le vere cause della crisi e far conoscere le proposte socio-economiche.

In tal modo – ed in associazione, ovviamente, alle più classiche forme di partecipazione politica quali il volontariato, le assemblee ecc. – si potrà creare una nuovo comunità, nel vero senso di pensieri ed idee comuni, che consentano all’Italia ed all’Europa di risollevarsi da queste situazione di sfruttamento.

Raffaele Vanacore
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