Sottomissione, ovvero l’Islam e il potere

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Il profondo gap politico, che ha da sempre separato potere e rappresentanza, sembra oggi riproporsi, nei paesi occidentali, in termini diversi da quelli che lo hanno caratterizzato nei secoli scorsi, ed anzi per tutta la storia del mondo occidentale stesso. Se infatti in passato il divario tra sovranità individuale ed esercizio effettivo del potere politico era in larga parte riconducibile ad una differenza di classe (ed ancor prima alla nascita stessa), oggi l’incrociarsi, spesso in maniera violenta, di diverse culture e diverse religioni ha fatto sì che l’interminabile lotta per il potere politico tra chi lo detiene e chi lo rivendica risulti fondata, appunto, su nuove basi. È l’insieme di una serie di fattori, in particolare economici e demografici, a rendere questa evoluzione ancor più pressante e questo scontro ancor più netto.

Il magistrale esempio fornito da Michel Houellebecq nel suo capolavoro “Sottomissione” – romanzo edito da poco, ma già annoverato tra le cult novel e tra i romanzi distopici, che si ripromettono tuttavia di avverarsi, come “1984” di Orwell – può certamente offrire una valida base ad un’attenta riflessione circa le dinamiche del potere nel XXI secolo. Perché dunque è ipotizzabile, o almeno immaginabile, che in un prossimo futuro un partito musulmano arrivi a detenere il potere in uno stato europeo? Non è forse questa una contraddizione tra la natura cristiana del mondo occidentale ed un possibile potere islamico?

In effetti, considerando l’ormai secolare dominio occidentale su paesi musulmani (emblematici sono i casi della Palestina e dell’Iraq), il principio cuius regio eius religio applicato ancor oggi nella politica occidentale sembra in realtà in bilico. Se “alcuni animali sono più uguali degli altri”, alcune nazioni possono essere escluse da una forma secolare di rappresentanza. Tuttavia, ad interessare è la possibilità che il suddetto principio possa disapplicarsi all’Europa stessa.

A tal proposito, ed ancora una volta, a rendere urgenti le considerazioni sulla natura stessa del potere sono i cambiamenti demografici. Saranno loro, che tanto influenzarono sia Darwin che Marx, a ridefinire i termini politici di questo secolo? Riflettendo sui recenti dati demografici risulta, infatti,  chiaro come il crollo del tasso di natalità nei paesi europei sia parallelo ad un tasso elevato tra le popolazioni musulmane. Di conseguenza, è evidente che la percentuale di musulmani sia destinata ad aumentare, alquanto vigorosamente e velocemente, nei paesi europei ed in particolare nei grandi centri urbani (Londra, Parigi, Milano, etc.).

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Ma qual è la costante politica, che, esprimendosi come scarto rappresentanza – potere politico si esprime oggi in questa nuova forma, culturale? Il vulnus della società contemporanea europea sembra essere proprio il fatto che salendo nella “gerarchia sociale” la percentuale di musulmani si riduce sempre più, fin praticamente ad annullarsi al livello più alto, ossia quello politico. In altri termini, mentre il numero di islamici è elevato tra la popolazione generale  (tra il 5 ed il 10% in paesi quali Francia, Germania, Paesi Bassi e Svezia) e tra coloro che esercitano professioni non specializzate, esso si riduce nelle professioni specializzate fino a risultare pressoché nullo in Parlamento (Tab. 1). A questo punto, come le rivendicazioni socialiste ed operaie nello scorso secolo aprirono il campo politico a nuove fasce di popolazione, ampliando il diritto di voto, così le rivendicazioni delle popolazioni immigrate (sovente da più generazioni) potrebbero, a breve, portare all’accesso al potere politico da parte di nuove fasce sociali, rappresentate, in gran parte, da musulmani. E questo è lo scenario di “Sottomissione”.

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Tab. 1: Situazione dei musulmani in Francia

Facciamo l’esempio della Francia, dove il numero dei musulmani si aggirerebbe intorno all’8%. Se questa percentuale demografica si tramutasse in un’analoga percentuale elettorale, quali potrebbero essere le conseguenza per una nazione come la Francia? Certo, le ipotesi di Houllebecq sono probabilmente esagerate (islamizzazione delle università, fine del lavoro femminile, etc.), ma è indubbio che, per la prima volta da almeno cinque secoli, il potere politico cristiano prospetta una sua possibile erosione a favore dell’islam. Cosa succederebbe poi se, ad esempio, il Qatar o gli emiri del Dubai, dopo aver comprato squadre di calcio e gran parte del patrimonio urbanistico delle capitali europee, decidessero di acquistare capacità politica finanziando massicciamente un partito musulmano laico e moderato, quale una sorta di Fratellanza musulmana europea?

La risposta a questo processo, certo fisiologico ed effetto, in parte, della globalizzazione e del consumismo individualista occidentale, la stiamo già vivendo. Posto infatti che questo processo di erosione del potere cristiano in Europa è già iniziato, anche le politiche atte a contrastarlo sono già cominciate. Secondo questo schema, l’aumento della violenza islamica (ISIS, attentati a Parigi, Boko Haram) sarebbe funzionale all’erezione di nuove ed ancor più nette barriere volte a contrastare l’ormai inevitabile erosione del potere cristiano a favore di quello musulmano, così come le violenze delle Brigate Rosse servirono a stabilizzare il sistema negli anni ’70, impedendo l’accesso al governo del PCI.

La crescita, in sostanza, sarebbe come un fiume in piena che inevitabilmente tende a riempire di sé finanche i più lontani gangli sociali, ossia quelli politici stessi. È per contrastare questa deriva che l’Occidente sta erigendo dighe sempre più forti; ma riuscirà a fermare questa evoluzione? L’osmosi tra religioni e popolazioni renderà il prossimo il secolo della ridefinizione del potere politico. L’intreccio delle popolazioni, delle culture e delle religioni potrà cambiare, drasticamente, la futura degli Stati occidentali.

Raffaele Vanacore

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LA RIVOLUZIONE ABORTITA

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LA RIVOLUZIONE ABORTITA

Lo straordinario, e certamente meritato, successo de “Il Capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty – il Kurt Cobain dell’economia – pone, a fianco a delle certezze economiche, dei dubbi politici. Se infatti l’analisi economica parte dal XVIII secolo (rivoluzione francese ed indipendenza americana in particolare) per arrivare a delle previsioni per il XXI, la struttura politica che potrebbe derivare da tale scenario economico non è chiara.

Ma andiamo con ordine. In estrema sintesi, quali saranno gli aspetti principali dell’economia del Ventunesimo secolo? Dato che l’aumento del capitale è inversamente proporzionale al tasso di crescita (r = s/g), un lungo periodo caratterizzato da un basso tasso di crescita, quale quello che si prospetta in questo secolo, sarà inevitabilmente associato ad una accumulazione del capitale (si ricorda che il tasso di crescita globale è dato dal tasso di crescita economica sommato a quello della crescita demografica). Questo, associato al fatto che l’inevitabile e sensibile aumento del debito pubblico (derivato in larga parte dall’aumento crescente delle spese per sanità ed istruzione) conduce ad un aumento dei capitali privati  – non solo per la conseguente privatizzazione di gran parte del patrimonio nazionale, ma anche per gli elevati interessi pagati sul debito stesso – forma la struttura capitalista di questo secolo.

Infatti, dopo un periodo in cui l’accumulazione di capitale (misurata come percentuale di ricchezza nelle mani dei diversi decili o centili di popolazione) è nettamente diminuita in Europa – dapprima per le distruzioni delle due guerre mondiali, dappoi per gli anni di ristrutturazione socio-economica largamente basata su politiche di welfare –la diseguaglianza economica sta ora crescendo di nuovo. Accanto ai motivi considerati sopra, la causa di questa tendenza, secondo la ricca documentazione di Piketty, è senza dubbio l’accrescere del capitale mobile, che si estrinseca, in larga parte, sotto forma di stipendi e bonus di manager e banchieri.

Una volta definita la strutturata capitalista del XXI secolo, emerge chiaramente come un primo punto sottovalutato da Piketty sia il fatto che oggi il denaro è creato dal nulla1. In realtà infatti, a seguito della creazione ex nihilo di questo denaro, i banchieri ne assegnano a se stessi una quota assolutamente rilevante. Pertanto, la quota di capitale posseduta dall’1% più ricco della popolazione è oggi non solo in larga parte finanziaria, ma anche in forte aumento.

In sostanza, considerati nel complesso questi fattori, il risultato è che la diseguaglianza economica sarà in forte aumento nel XXI secolo. Il decile, ed in particolare il centile, superiore della popolazione vedrà crescere la proporzione di capitale detenuta, avviandosi a raggiungere i livelli estremi di diseguaglianza delle società europee di inizio XX secolo (negli Stati Uniti oggi il decile superiore della popolazione detiene il 70% del patrimonio totale).

Detto questo, si giunge alla questione politica. È veramente pensabile, come fa Piketty, che a fronte di un aumento delle disuguaglianze la società possa reagire con una rivoluzione (“se il decile superiore si appropriasse, per esempio, del 90% delle risorse prodotte ogni anno […] è assai probabile che una rivoluzione metterebbe prontamente fine a una tale situazione”2)? Il fatto è estremamente improbabile, dato che nonostante una diminuzione della quota percentuale di ricchezza detenuta dal 90% meno ricco della popolazione, la loro ricchezza netta potrà essere in realtà aumentata. È praticamente quello che sta avvenendo in Paesi come la Cina e la Russia, ed in parte negli stessi Stati Uniti: nei primi, nonostante un’accumulazione spropositata di capitale da parte di pochi oligarchi, la popolazione ha visto nettamente crescere gli standard di vita. Negli USA ciò è avvenuto negli ultimi decenni proprio per il fatto che grazie all’aumento della massa totale di denaro, la quota disponibile per il resto della popolazione è aumentata (salvo poi sgonfiarsi con lo scoppia della bolla finanziaria).

Il problema dell’1% più ricco (l’élite) è quindi ben più profondo di quanto Piketty ed altri economisti (Stiglitz, Krugman etc.) prospettino. In altri termini, se scomponessimo l’1% più ricco non solo di ogni nazione, ma anche di ogni città e finanche di ogni piccola frazione del più piccolo comune, si scoprirebbe un fil rouge che collega ogni centro di potere. Ne deriva, inevitabilmente, un reticolo sociale su cui solidamente si struttura la politica stessa. È ciò da cui mettevano in guardia Adorno ed Horkheimer nella loro critica alla società capitalista: sono loro infatti a citare il marchese de Sade, quando afferma, nel romanzo “Juliette”, che “non può esservi altro equilibrio della  giustizia [del governo]che quello dei suoi interessi o delle sue passioni, uniti solo agli interessi ed alle passioni di quelli che hanno ottenuto da lui tanto potere quanto è necessario per moltiplicare il suo”3.

In definitiva, grosso errore politico è stato quello di considerare separato l’1% più ricco di una nazione rispetto all’1% che si riproduce in ogni contesto locale: è in pratica grazie all’appoggio di questo 1% locale, che non vuole perdere il proprio status, che l’1% nazionale o globale può moltiplicare all’infinito il proprio potere, creando una struttura reticolare difficilmente ribaltabile. In questa prospettiva risulta estremamente evidente come movimenti quali “We are 99%” siano in realtà illusori: la percentuale di chi vuole rovesciare il sistema, che pur conduce a disuguaglianze sempre più eclatanti coinvolgendo quegli stessi che lo sorreggono, è in verità molto più esigua. Rovesciare il sistema è sconveniente quasi per tutti. È proprio la lezione di Piketty ad insegnare che solo le due guerre mondiali hanno frenato l’accumulazione di capitale, e di conseguenza di potere politico (oggi ormai si direbbe “un dollaro un voto”4), da parte dell’1%. Non a caso, per Adorno ed Horkheimer, “l’economia mercantile scatenata era insieme la figura attuale della ragione e la forza che aveva dato scacco alla ragione”5.

                                                                                       Raffaele Vanacore

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1 Si ricorda la lezione di Luciano Gallino: “tanto le banche private quanto le banche centrali fabbricano o creano denaro concedendo crediti che sono privi di fatto, per quanto le riguarda, di un adeguato collaterale” (L. Gallino – Finanzcapitalismo, Come le banche hanno creato il denato dal nulla, pag. 174).

2 Thomas Piketty – Il Capitale nel XXI secolo, pag. 401

3 M. Horkheimer e T. W. Adorno – Dialettica dell’Illuminismo, pag. 95

4 Si veda la lettera shock inviata da Tom Perkins al Wall Street Journal

5 M. Horkheimer e T. W. Adorno – Dialettica dell’Illuminismo, pag. 96

Il mefitico alito pestilenziale della civilità e Jim Morrison

La contraddizione ontologica, e storica, è quella tra bisogni individuali e denaro. È questa dialettica negativa, che pone il denaro come antitesi dell’uomo. Ma qual è la sintesi? Se il possesso del denaro aumenta la miseria dell’uomo, e per questo la sua potenza, cosa crea la ricchezza dell’essere?

Se la storia del conflitto tra avere ed essere è la storia del conflitto tra società ed individuo, come creare nuovi modi di produzione? “Il raffinamento dei bisogni e dei loro mezzi produce un imbarbarimento animalesco”: e così, nel cerchio della vita, secondo i più sinuosi movimenti ciclicamente a-temporali, il progresso definisce, e costituisce, l’animalità dell’uomo. “Il mefitico alito pestilenziale della civiltà” inquina e sporca l’ontologia vera della specie. Ma la teoria della popolazione prevede questo. All’aumento della ricchezza ed allo sviluppo tecnologico corrisponde un aumento della popolazione, a cui consegue, di necessità, un generale imbrutimento sociale ed individuale. Il disprezzo della vita è prodotto dall’amore per la vita. E l’amore per la vita è prodotto dall’amore della morte. La morte è il feticcio della specie, la cheerleader della società.

Il denaro conduce allo “sfruttamento universale dell’essere sociale dell’uomo”. E l’alienazione regala dignità di esistenza al denaro, “divinità visibile e meretrice universale”.

Il denaro guida la vita e l’economia politica è la “scienza della ricchezza”. A differenza del mondo ottocentesco di Marx però la ricchezza non sta più nel risparmio, ma nel consumo. È paradossale che Marx pensasse che gli economisti stupidi avessero dimenticato che “se non si consumasse non si produrrebbe”. Marx consumista? È stupido, infatti, chi dimentica come l’essenza del capitalismo sia cambiata nel corso di due secoli e come, di conseguenza, la destinazione del capitale sia essa stessa cambiata. Il classico rapporto capitalista-operaio è svanito in una bolla finanziaria. Il grosso del capitale non è più risparmiato, ma consumato. E questo vapore liquido defluisce in pochi fiumi monopolistici. Così l’oceano del capitale investe e modella ogni continente. Il consumo è l’essenza odierna del capitale così come la finanza è l’oceano del monopolio. Ma il problema della sovrapproduzione è il problema della popolazione. Ci sono troppi uomini.

E così la teoria della popolazione si evolve in morale religiosa. In virtù del fatto che “anche l’opposizione tra economia politica e morale è soltanto apparenza”, l’espressione estrema del capitale del XXI secolo è la camorra (https://danaeblog.com/?s=gomorra+e+marx).

Ma come sostituire l’individuo alla specie? La necessità biologica della specie non è forse essa stessa l’essenza dell’individuo? Non è forse l’individuo una “realizzazione del proprio non-essere”? Egli vive la vita sociale e la propria vita di bisogni ha luogo nel sogno…E il mondo consumista, anti-ontologico, ci fa dire, all’unisono con Jim Morrison, “sogna perche’ nel sonno puoi trovare quello che il giorno non ti puo’ dare…”.

Raffaele Vanacore
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Rustin Cohle e l’alienazione sociale

Se l’essenza reale dell’uomo, in quanto essere della specie, è la morte, la sua natura si manifesta nell’alienazione. Ma quest’alienazione – per Marx prodotta dalla genesi della proprietà – risulta in realtà ascrivibile alla necessità stessa dell’uomo di vivere in società come massima espressione della selezione naturale. A questo punto, come fa questa necessità storica a farsi sensibile?

È ipotizzabile un “organo sociale”, “organo di una manifestazione vitale”? La natura dell’uomo, o meglio la genetica dell’essere umano, ha probabilmente previsto l’integrazione della capacità sociale nel genoma umano. In altre parole, l’alienazione stessa è insita nella specie umana, e quindi nell’uomo.

Come conciliare dunque questo conflitto, quasi eracliteo (“tutto avviene secondo contesa”…) tra la natura volta alla libertà dell’uomo e quella incatenata all’alienazione dell’essere sociale? In questa sorta di conflitto a fuoco tra volontà di potenza (e di libertà…) e tra volontà di soggiogamento prevale la staticità, l’anti-progresso. In sostanza, l’ontologia umana si rivela nella sua schiavitù alla specie. E la bestialità dell’uomo, in quanto – inevitabilmente – essere biologico, definito dalle qualità della specie stessa, manifesta la sua realtà nella menzogna. È il cervello umano, che si esplicita come coscienza, a negare a se stesso, ed al mondo, la sua corsa verso la morte, la sua inutilità individuale ed il suo incatenamento ai dettami della specie (strutturata, come visto, in società secondo la selezione naturale). E la vita stessa è la più grande menzogna. Rustin Cohle (detective e filosofo protagonista di True Detective) fa bene a pensare “che la coscienza umana sia stata un tragico errore dell’evoluzione. Siamo diventati troppo consapevoli di noi stessi”…

Errore di Marx è stato quindi quello di considerare la proprietà privata come generatrice dell’alienazione. Ma questa è talmente insita nella naturale animalità dell’uomo, che si può ipotizzare che in un tempo remoto, in cui l’uomo si doveva ancora emancipare dalla vita in branco e la coscienza individuale era ancora inespressa, l’alienazione individuale e la dipendenza dalla specie erano le modalità di vita, e di sussistenza, della specie umana. Non è, insomma, la proprietà privata ad alienare l’individualità di un gruppo di api o di formiche. È la natura stessa che le fa vivere per la specie.

Ora posto che la specie domina ancora la natura dell’uomo e che il miglior mezzo di perpetuazione della specie umana è la società, come fa la struttura sociale a trasmettersi agli individui? È proprio questo il punto: in virtù di un successo selettivo, la volontà di soggiogamento sociale si trasmette geneticamente ad ogni individuo. E questo è lo scacco dell’individualità, l’uomo è oggetto sociale. La soppressione della proprietà privata non porterebbe, in  alcun modo, alla fine dell’alienazione, come la distruzione di un alveare non porterebbe, in alcun modo, alla fine della vita in gruppo delle api. In pratica, come già Marco Aurelio aveva intuito, “ciò che non giova all’alveare non giova neppure all’ape”: di riflesso, ciò che non giova alla società non giova all’uomo. Ma ciò che giova alla società non sempre giova all’uomo. E questa è la contraddizione decisiva tra il Super-uomo e la Bestia. La corda è tesa sull’abisso dell’inconciliabilità tra libertà e società.

Ma, come detto, il punto centrale della questione è che la necessità dell’integrazione nella società è insita nella coscienza dell’individuo e trasmessa geneticamente alle generazioni successiva. In pratica, è frutto della selezione naturale e passa, geneticamente ed in maniera circolare, alle generazioni successive. Questo genotipo sociale, inevitabilmente riprodotto nella nostra psiche, governa a priori la nostra vita, rendendo l’alienazione parte integrante della vita in società. Se il socialismo “comincia dalla coscienza”, è conseguente che le modalità con cui la società struttura la nostra psiche vanno cambiate. L’impressione sensibile della società su di noi, che alimenta con vigore l’alienazione e si plasma tramite meccanismi epigenetici, va interrotto. Se “il comunismo non è come tale la meta dello svolgimento storico”, nuove  forme di società, anti-alienanti, vanno ricercate e strutturate. Nuove mete vanno ricercate.

Ma insomma diciamoci la verità il movimento circolare è al verità dell’uomo e, sempre con Rustin Cohle, “il mondo è un cerchio piatto. Tutto quello che abbiamo fatto o faremo, lo rifaremo ancora e ancora e ancora e ancora”…

Raffaele Vanacore
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Prostituzione generale e critica del comunismo

L’analisi del rapporto tra individuo e proprietà privata – che, in sintesi, è il rapporto di prostituzione del capitalista – rivela la sua sostanziale importanza nello studio del rapporto tra la società e la natura. Insomma, la questione del socialismo è la questione della specie. L’uomo come particolare esiste solo come entità biologica nella totalità della specie; e tale entità si scontra, bruscamente, con quella rete sociale, che plasma non solo l’individuo come parte della società, ma anche la coscienza biologica dell’individuo. In altre parole, qual è il rapporto tra l’uomo e la natura, tra la specie umana e la natura? Inoltre, in questo contesto, quale ruolo ha la proprietà privata? Infine, poste le basi del socialismo biologico (e per questo scientifico), ha questo un ruolo nella società odierna?

A creare una spaccatura profonda nella società – in una sorta di Big Bang sociale – è stata l’emancipazione del capitale dal lavoro, ossia l’esclusione della proprietà privata dal lavoro. È la contraddizione tra il fatto che il lavoro esclude la proprietà privata e che la proprietà privata esclude il lavoro a costituire il più grande atto d’accusa alla prostituzione sociale. Si è passati, infatti, “dal rapporto di matrimonio esclusivo col proprietario privato al rapporto di prostituzione generale con la comunità”. In pratica, non solo il rapporto stesso tra capitale e lavoro si basa su di un contratto simile a quello del cliente e della prostituta, ma anche – in virtù di uno sballato e disarticolato sistema di tassazione – l’economia statale è sfociata nella prostituzione generale.

È l’apoteosi del comunismo rozzo attuata mediante le tasse a costituire l’antiprogresso sociale. Se Marx, infatti, era certo dell’evoluzione di un comunismo umanistico a partire da un comunismo rozzo (il quale, “in quanto nega ovunque la personalità dell’uomo, non è proprio altro che l’espressione conseguente della proprietà privata, che è espressione di questa negazione”), il mondo odierno ha segnato un paradossale ritorno a questa forma di comunismo rozzo. Grazie ad una tassazione eccessiva e regressiva, che estrae proprietà pubblica dalla proprietà privata, “tutti sono operai”. In pratica, il fatto che dalla proprietà privata, che si è formata tramite l’estrazione del capitale dal lavoro, si estrae a sua volta capitale pubblico tramite un eccesso di tassazione, ha creato un mostruoso e tentacolare Leviatano sociale che preleva ai più e dà i pochi. È la sconfitta di Robin Hood.

È l’arricchimento dei pochi, tipicamente evidente negli Stati comunisti quali Russia e Cina, ma oggi sempre più non solo in alcuni Paesi europei come proprio l’Italia, ma anche negli USA, a testimoniare il ritorno di un rozzo e vorace mostro economico, che schiaccia i vari Robin Hood e Little John e divora una lauta parte delle finanze pubbliche. In un mondo in cui “l’attività degli operai viene estesa a tutti gli uomini”,  non è più il capitalista che sfrutta l’operaio, ma è il Leviatano economico che sfrutta tutti gli uomini, avvantaggiandone pochissimi.

La biologia del socialismo – ed il nostro interrogativo, è ancora possibile il socialismo scientifico oggi? – è evidente considerando il rapporto tra l’uomo e la donna, il quale in ultima analisi è il rapporto dell’uomo con la sua specie. Se infatti il matrimonio è l’emblema di una “proprietà privata esclusiva”, “la comunanza delle donne è il mistero rivelato di questo comunismo ancora rozzo e materiale”. E certamente Marx aveva ben in mente la commedia “Le donne al Parlamento” di Aristofene quando stroncava questo comunismo rozzo:

“Il comunismo non è che il compimento di questa invidia e di questo livellamento partendo dalla rappresentazione minima. Esso ha una misura determinata e limitata. Proprio la negazione astratta dell’intero mondo della cultura e della civiltà, il ritorno alla semplicità innaturale dell’uomo povero e senza bisogni, che non solo non è andato oltre la proprietà privata ma non vi è neppure ancora arrivato, dimostrano quanto poco questa soppressione della proprietà privata sia un’appropriazione reale [ultimo corsivo mio]”.

Orbene, cosa fare contro il riemergere di questo comunismo rozzo, resosi manifesto come comunità in veste di capitalista generale? In una sorta di feudo del capitale il mondo va ristrutturandosi, paradossalmente e secondo i più goffi dettami del comunismo rozzo, come Leviatano capitalista che estrae capitale dalla proprietà privata stessa, creando così enormi diseguaglianze sociali. Il socialismo biologico è invece l’opposto: è recupero dei bisogni individuali dell’uomo. Ed il suo più grande errore è stato la pretesa che il miglior modo per la soddisfazione dei bisogni fosse l’eliminazione della proprietà privata.

Infatti, partendo dall’analisi del rapporto uomo-donna, emblema del rapporto individuo-specie-natura, Marx chiarisce, con gran vigore, che obiettivo del socialismo biologico è “la reintegrazione o il ritorno dell’uomo a se stesso”. In pratica, errore di Marx era stato quello di pretendere che l’alienazione dell’uomo fosse un risultato della struttura sociale fondata sulla proprietà privata, mentre, in realtà, è la società stessa a costituire la più profonda radice dell’alienazione.

In altri termini, l’uomo, in quanto necessariamente essere sociale, è necessariamente alienato da se stesso e dai suoi bisogni. Egli, consapevole di essere “la soluzione all’enigma della storia”, ha il compito di porre se stesso al centro del programma politico della storia. Ma errore di Marx, che pure poggia quasi per intero le sue teorie socio-economiche su quelle socio-biologiche di Darwin, è stato il non aver compreso come la natura abbia strutturato la specie umana in una società, miglior strumento per la riproduzione e la conservazione dell’essere umano, al prezzo di una svalutazione del complesso di bisogni individuali. In pratica, è la società al centro della politica della storia.

Pur avendo infatti intuito questo processo di selezione naturale (“la morte è la dura vittoria della specie sull’individuo”), che in pratica favorisce lo sviluppo della società come miglior mezzo di propagazione della specie (“la società è l’unità essenziale dell’uomo con la natura), Marx sposta nettamente il piano della ricerca sociale da quello biopolitica a quello meramente economico, fraintendendo l’alienazione come conseguenza particolare di un certo mezzo di produzione piuttosto che come risultato dell’integrazione dell’individuo nella rete sociale.

Il socialismo biologico – o comunismo umanistico – pur giusto negli obiettivi (riportare l’uomo ed i suoi bisogni al centro della politica) ha completamente toppato nei mezzi di raggiungimento di questi fini. Ed anzi, proprio lì dove questi mezzi sono stati proposti (URSS, Cina, etc.) i bisogni dell’uomo sono stati maggiormente calpestati. Se la lotta politica era, giustamente, “tra libertà e necessità”, nei paesi “comunisti” a soccombere è stata proprio la libertà.

A questo punto, giungiamo alla domanda cruciale: può il socialismo biologico avere un ruolo oggi? E qui ritorniamo alla questione del Leviatano capitalista per rispondere che sì, il socialismo biologico, con il suo fondamentale obiettivo della soddisfazione dei bisogni individuali dell’uomo e del “ritorno all’uomo” ha ancora un ruolo politico fondamentale; tuttavia, i mezzi di raggiungimento di tali obiettivi vanno modificati.

Infatti, non solo laddove la proprietà privata è stata abolita ne è conseguito un abbattimento delle libertà individuali, in contrasto con gli obiettivi del socialismo biologico stesso, ma oggi anche nel mondo occidentale lo sviluppo di un vorace Leviatano capitalista-statale (nella più aberrante delle fusioni economiche…) sta riconducendo la società a quel comunismo rozzo, in cui – in virtù di un “livellamento” verso il basso – il risultato netto è l’impoverimento della maggioranza della popolazione.

Compito della ricerca sociale è la creazione, dunque, di sistemi economici e politici che contrastino questa deriva e riportino l’uomo e i suoi bisogni al centro del mondo…

Raffaele Vanacore
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SERBIA vs ALBANIA. IL DRONE, STRUMENTO DI TECNOLOGIA O DI GUERRIGLIA ?

Tornano a far parlare le vicende balcaniche, dopo gli anni di silenzio e di pace seguiti ai tremendi massacri in Kosovo e Bosnia Erzegovina. Quanto accaduto la sera del 14 ottobre scorso a Belgrado, presso il Partizani Stadium, in occasione della partita di qualificazione europea fra Serbia ed Albania, ha veramente dell’assurdo. Ciò per una serie di motivi, prima di tutto legati al calcio ed al senso di quella manifestazione che, purtroppo, di sportivo ha avuto ben poco.

I principali esponenti in Italia del calcio albanese si sono espressi nel dopo partita, scagliandosi soprattutto contro certi media che avrebbero caricato troppo il match, infuocandone la vigilia. Hotel della nazionale albanese presidiato dalle forze di polizia e dai militari, a Belgrado, per evitare contatti con la squadra da parte di facinorosi serbi. Ma il nazionalismo serbo è forse quello che, a livello europeo, ha mostrato i suoi lati più distruttivi ed inquietanti nel corso degli ultimi due secoli. Ai tempi di Gavrilo Princip, che nel 1914 scatenò con l’attentato di Sarajevo la Prima guerra mondiale, erano certamente diversi i mezzi di propaganda politica e di incitamento all’odio etnico nei Balcani. I droni, come quello che ha sorvolato Belgrado due sere fa trainando una bandiera kosovara con stemma albanese, non erano nemmeno lontanamente immaginabili fra serbi, albanesi, sloveni, croati e bosniaci. L’ex Jugoslavia era e continua ad essere una polveriera, dove alla minima provocazione c’è pericolo di scatenare una nuova guerra. Fu guerra negli anni ’90, prima in Bosnia poi in Kosovo. I crimini del presidente serbo Svobodan Milosevic sono rimasti nell’immaginario collettivo come le peggiori fra le efferatezze compiute nell’area balcanica nel ‘900. Gli albanesi stessi ne sanno qualcosa, sterminati e perseguitati nel ’99 dalle truppe serbe per la morbosa pulizia etnica attuata dal suo leader. Una Serbia quale vera potenza nell’area slava, ortodossa per religione, filorussa per ascendente politico (i serbi scrivono in cirillico) e per la storica amicizia con i cugini russi. La stessa rassegna stampa del giorno seguente la gara di calcio di Belgrado, sia albanese che serba, ha calcato la mano propendendo ovviamente per l’una o l’altra Nazione.

Il nazionalismo serbo è latente, messo apparentemente a tacere dopo la “perdita” prima del Montenegro – non senza polemiche – e poi del Kosovo appunto, tuttora non effettivamente riconosciuto come Stato dalla comunità internazionale. Ecco quindi il sogno della “Grande Albania” che torna a far discutere, infiammando persino i giocatori delle due nazionali in campo. Il modo in cui il pubblico stesso ha replicato alla provocazione del drone è soltanto una ovvia conseguenza di un odio etnico che si ripresenta più violento che mai. Serbi e albanesi non troveranno mai pace. Mentre a Belgrado si combatteva, in strada e in campo, nelle piazze di Tirana si esultava, fra lo sconcerto generale dei calciatori presenti – molti dei quali militanti nel campionato italiano. Laziali soprattutto, dagli albanesi Cana, Berisha e Tare (oggi dirigente biancoceleste) ai serbi Djordjevic e Basta (quest’ultimo a casa per infortunio). L’Italia ne ha ancora tanti nel suo campionato, dove non sono mancate le istigazioni alla memoria di quell’odio mai sopito in Serbia. Ricordiamo l’esposizione da parte della curva laziale stessa, anni fa, di croci celtiche e simboli inneggianti alle feroci “tigri” di Arkan – corpo paramilitare che nel ’90-’91 commise alcuni delle più atroci stragi durante la guerra in Bosnia, che portò alla fine della federazione jugoslava. L’indipendenza del Kosovo, regione della Serbia a maggioranza albanese, riprende vigore con questa scorribanda del drone su Belgrado. Il gesto simbolico e le sue conseguenze nefaste sono stati vissuti con sdegno e paura anche dal nostro Gianni De Biasi, allenatore della nazionale albanese, che si è unito al coro dei calciatori presenti all’evento.

Non poteva mancare lui, Ivan il terribile (Ivan Bogdanov), capo ultras serbo che nel 2010 impressionò l’Italia a Genova, mostrando muscoli e tatuaggi simbolo di una Serbia che fa davvero paura, facendo sospendere la partita di qualificazione europea dopo aver fatto di tutto, a cavallo della sua gradinata, strappando reti, provocando polizia e pubblico dello stadio Ferraris. Già nel derby di Belgrado, fra Partizan e Stella Rossa, esplode normalmente l’opposto credo politico degli ultras serbi. Tutto farebbe pensare al nostro Genny a’ carogna dell’Olimpico, capo ultras del Napoli nonché camorrista oggi agli arresti. Niente in confronto all’impeto dei serbi, leoni al servizio del loro capobranco, non pecore come gli ultras partenopei. Secondo alcune voci Bogdanov avrebbe, così come Genny a Roma lo scorso 5 maggio, “moderato” gli animi trattando in campo per consentire la continuazione del match – come Genny a’ carogna. Una presenza temuta e rispettata nelle fila serbe, ma questa volta non è bastato a placare la furia di un popolo stuzzicato, forse inutilmente, nel suo orgoglio nazionalista.

Impossibile separare sport e politica, almeno nelle frange estreme delle tifoserie slave, dove episodi di violenza avvengono costantemente, sia in Serbia che nella cattolica Croazia (Hajduk Spalato e Dinamo Zagabria soprattutto), durante derby della violenza che mettono a nudo i sentimenti di popoli che forse non riusciranno mai ad amarsi fra loro. Sconcertante, infine, è pensare che personaggi simili a Ivan il terribile continuino, dopo quanto abbiano combinato in passato, a marciare indisturbati per gli stadi stabilendo le logiche di un mondo perverso che è giocoforza mischiato con lo sport.

 

Francesco Pascuzzo

 

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Il chiattone e il tubo in c**o

Le sevizie ai danni di un obeso 14enne di Pianura potrebbero esser interpretate come la classica prevaricazione, lo sfottò, verso un ragazzo più piccolo, più debole, obeso. Questo in parte è vero, ma la dinamica dell’incidente (quel tubo in c**o…) è emblematica di un più profondo disagio sociale. La volontà di far “esplodere il chiattone” è il simbolo, appunto, di quell’evaporazione sociale che tanto sembra caratterizzare il mondo moderno ( https://danaeblog.com/2014/10/11/oltre-bauman-sviluppo-tecnlogico-e-nascita-di-una-nuova-societa/ ).

Se da un lato, infatti, la liquefazione sociale si accompagna ad un generale impoverimento – peraltro acuito in zone già sofferenti, le quali, piuttosto che svilupparsi, arretrano sempre di più sul piano socio-economico – dall’altro l’aumento della violenza si presenta come danno collaterale dell’impoverimento stesso. E tale analisi trova conferma proprio in Bauman, secondo cui “povertà e disoccupazione cronica, così come il lavoro senza prospettive, sono correlate a tassi delinquenziali superiori alla media”. Insomma, per il teorico della società liquida, le cause di questi fenomeni di violenza sono di natura sociale  e si presentano come “danno collaterale della globalizzazione orientata al profitto”.

In sostanza, è lo scarto tra i modelli di vita agognati e la realtà fatta di povertà, mancanza di possibilità e miseria a generare lo scacco di questi segmenti più disagiati della società (ben inteso, non solo napoletana o italiana, ma anche inglese, americana etc.). E’ l’inquietante paradosso che la globalizzazione, con l’avanzare tecnologico e l’aumento della ricchezza totale, piuttosto che guidare ad una generale aumento della qualità di vita della popolazione, conduce ad un impoverimento sociale ed economico proprio delle fasce più deboli della società (in cui, tuttavia, un  numero sempre maggiore di persone viene risucchiato) a rappresentare il maggior atto d’accusa ad una globalizzazione asimmetrica, che ha tradito le aspettative di progresso globale.

Il ciccione gonfiato fino a far esplodere l’intestino, Ciro Esposito morto per la guerriglia calcistica, Davide Bifolco ucciso per un alt non rispettato, sono i simboli di quell’avanzante evaporazione sociale, caratterizzata dalla mancanza di lavoro, di prospettive, di affetti, in cui – in virtù del vuoto stesso creato da una società asimmetrica ( https://danaeblog.com/2014/10/11/oltre-bauman-sviluppo-tecnlogico-e-nascita-di-una-nuova-societa/ ) – si inserisce l’economia globalizzata, che amplifica essa stessa le differenze e aumenta la probabilità di danni collaterali.

E il paradosso è che di fronte all’inconsistenza politica l’unico punto fermo è Genny ‘a carogn’… (https://danaeblog.com/2014/05/06/la-vera-questione-genny-a-carogn/)

Raffaele Vanacore

Laureando in Medicina, da sempre appassionato alla filosofia ed alla ricerca sociale, ed in particolare alle conseguenze che gli sviluppi tecnologici hanno sulla società e sulla coscienza dell’individuo, ha creato e dirige il blog di arte e scienze http://www.danaeblog.com

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Oltre Bauman: sviluppo tecnlogico e nascita di una nuova società

ZygmuntBauman

http://www.media2000.it/2014/10/bauman-sviluppo-tecnologico-nascita-nuova-societa/

Condivido anche qui l’articolo scritto per Media2000:

 

La più fortunata interpretazione della nostra società è quella di società liquida di Zygmunt Bauman. Per il sociologo polacco l’incertezza sociale, generata dal collasso delle predefinite strutture sociali ed acuita dalla profonda sensazione di ansia che ad essa si accompagna, si fa, per questo, individuale. Ed in questo mondo soffocantemente ansiogeno prevalgono forze quali l’industria della paura (si vedano i recenti casi dell’Ebola e dell’ISIS) ed il riemergere di latenti forme di razzismo corredate dai più moderni hashtag, in un inquietante mix neo-moderno (“zio Adolf non è che aveva sempre torto… ‪#‎incontrimultirazzialipocograditi” è il post di un mio amico su Facebook). Fattore decisivo nella liquefazione della società è stato senz’altro lo sviluppo tecnologico: questo ha permesso di vincere il reticolo cristallino sociale tramite l’immissione di nuova energia nel sistema (in questo caso tecnologica, piuttosto che termica). Come nelle più classiche reazioni di fusione, tale passaggio ha portato ad un aumento di volume, ossia alla globalizzazione. Il danno collaterale più evidente di questo passaggio solido-liquido è stato non solo la precaria stabilità dell’individuo-atomo nel reticolo-società, ma anche l’allontanamento reciproco degli individui, con il risultato, come detto sopra, della creazione di un mondo ansiogeno e del riemergere di forme di razzismo e nazionalismo.

L’analisi, tuttavia, non va conclusa ad un livello sociale, ma deve giungere ad interessare, in maniera decisiva, il piano del potere. La crisi degli Stati e del loro ruolo politico risulta, infatti, riconducibile all’evaporazione, concreta, del potere statale, intesa come “trasferimento di funzioni dello Stato all’economia mondiale” (U. Beck). In sostanza, l’insufficienza della democrazia rappresentativa è un problema non locale, non spaziale, ma a-spaziale, e si ricollega, inevitabilmente, alla liquefazione sociale. L’economia politica globalizzata – per alimentare se stessa e per spezzare i vincoli della rappresentanza – ha travalicato i confini dello spazio, globalizzando il mondo, rendendolo singolo ed infinito. Non sono più i governi, politicamente e spazialmente definiti, ma è un’economia mondiale – non legittima né legale, in altri termini translegalizzata (per usare un’espressione che Beck riprende da Max Weber) – a governare il mondo. Si assiste, in pratica, al “declino della legittimazione del potere” ed all’alba di un potere translegale, che ripudia la democrazia rappresentativa (secondo il modello congiuntivo bottum-up) e fa proprie le forme di governo tecno-elitarie (secondo il modello etereo top-down, dove cioè le linee del potere non toccano mai i punti più bassi della società, cioè i cittadini).

In altri termini, la liquidità moderna è la più classica delle conseguenze di un mondo esteso all’infinito e, per questo, a-spaziale. Come nella più logica legge della fluidodinamica, il liquido tende ad accumularsi sul fondo. E lo spazio è vuoto. Il rapporto dell’individuo con il mondo sociale è non più cristallino, cioè solido e definito, ma fluido e, per questo, precario. Il paradosso è che all’aumentare della fluidità, cioè della flessibilità e della possibilità in quanto tale, corrisponde non tanto un aumento della libertà, ma l’incapacità dell’individuo a rendere pieni gli spazi sociali. Ed in tali spazi gioca il suo ruolo, straordinario e predominante, l’economia. Ed il binomio liquidità-consumismo è infatti inscindibile per Bauman.

È lì dove il contenitore sociale si svuota, che si inseriscono “le monete”. È questo paradossale salvadanaio sociale a costituire il più grande vincolo alla libertà. E quanto più l’invasione capitalista riempie nuovi territori (secondo la legge dell’inutilità di un mondo a-capitalista), tanto più i legami sociali, spesso ancora tribali, si rompono e la società si liquefà, aprendo nuovi spazi a tale salvadanaio globale capitalista. In questo contesto, il rischio è che il passo successivo sia l’evaporazione della società. La definita espansione dello spazio globale porta infatti, inevitabilmente, alla vaporizzazione non solo della politica, ma anche dell’individuo. L’analisi di Bauman si conclude, espressamente, con Adorno: “la presenza costante della sofferenza, della paura e della minaccia rende necessario che il pensiero che non può essere realizzato non deve essere messo da parte. Essere fraintesi dal senso comune è il privilegio, persino il dovere della filosofia”. In fondo, il messaggio è ancora nella bottiglia.

Raffaele Vanacore

Laureando in Medicina, da sempre appassionato alla filosofia ed alla ricerca sociale, ed in particolare alle conseguenze che gli sviluppi tecnologici hanno sulla società e sulla coscienza dell’individuo, ha creato e dirige il blog di arte e scienze http://www.danaeblog.com
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Questa vita

 

 

Dopo tanti kilometri
noi arrivammo in quell’estate cosi calda
ci trovammo noi così
cinque anime un solo cuore
che non vedevano l’ora di
divertirsi e capire che

Rit: Questa vita
ormai è già scritta
in un ricordo che hai
quell’estate è ormai passata
ma vivrà per sempre
dentro di noi

Lo so perchè
ora sei triste
trovandoci insieme noi capiremo
qualcosa che se lo sai
nell’amicizia c’è
un’emozione che batte forte
e fa la felicità

Rit.: Questa vita è
rosa rossa
che non muore mai
suona una melodia
toccando il fondo
dell’anima mia

We don’t know who we are
I can feel the sea into me
when you’re so close to me
this wind will take me
far away,far away,far away

We belong to a place
of the universe
and I’ll keep you
into my mind

Tu sei amore e
forza di vivere dentro me
questa vita
è ormai già scritta
in un ricordo
che ora qui non c’è
che non c’è…

Giuseppe D’Angelo
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Proprietà privata e cosmopolitismo

maex

Il rovesciamento ontologico dell’esistenza umana avviene nel momento in cui la proprietà privata, da essenza oggettiva, diviene soggettiva. E l’essenza soggettiva della proprietà privata è il lavoro. Essa, infatti, è non più uno stato esterno all’uomo, ma un fattore cognitivo, ossia interno alla coscienza dell’individuo. Adam Smith, il “Lutero dell’economia”, ha svelato come essa costituisse una parte della soggettività individuale. In altri termini, così come Lutero rivelò l’essenza interna della religione, Smith ha rivelato l’essenza interna della proprietà privata. Il lavoro alienato, che crea la proprietà privata, e quindi la coscienza dell’individuo, forma una sorta di neurobiologia della proprietà privata, che risulta così non estranea all’uomo, ma ben plasmata nella rete sinaptica, individuale e sociale, dell’uomo. Ed in questo modo l’economia politica diviene “la negazione dell’uomo”:

“L’economia politica comincia apparentemente col riconoscimento dell’uomo, della sua autonomia, della sua libera attività, ecc. Quindi, trasferendo la proprietà privata nell’essere stesso dell’uomo, non può più essere condizionata dalle determinazioni locali, nazionali, ecc., della proprietà privata, considerata come un essere esistente al di fuori di essa, e pertanto sviluppa un’energia cosmopolitica, universale, che travolge ogni barriera ed ogni vincolo per porsi al loro posto come l’unica politica, l’unica universalità, l’unica barriera e l’unico vincolo”.

In pratica, il più grosso effetto collaterale dell’incorporazione della proprietà privata nella coscienza  è la fine della libertà dell’individuo. Se l’uomo è sinapticamente  predisposto alla proprietà privata, una fuga non è pensabile, se non nel senso di una fuga dalla libertà (Erich Fromm). Peraltro, non solo le determinazioni locali (e politiche) non hanno più senso in un contesto razionalizzato dalla coscienza della proprietà privata e globalizzato dagli sviluppi neo-tecnologici, ma – in virtù di una cosmopolitizzazione del capitale – la vita stessa dei popoli è la vita del capitale. Se infatti la proprietà privata è incorporata nella coscienza individuale, emerge una sorta di specie-capitale, che – secondo i più classici meccanismi della selezione naturale – tende all’eliminazione dei luoghi a-capitalistici ed allo sviluppo di quelli a più alto tasso di capitale, secondo la regola dello sviluppo del più capitalista.

Se il cosmopolitismo, con l’evaporazione del potere politico, si identifica con la democrazia neo-liberale del capitale, dove il “demos” non è più il popolo, ma la proprietà privata in quanto tale, il lavoro, che crea la proprietà privata, e quindi il demos, è l’essenza stessa del mondo moderno. In pratica, “il lavoro è l’unica essenza della ricchezza”.

Tuttavia, mentre in passato il lavoro era il mezzo di soddisfacimento dei bisogni (ad esempio con l’agricoltura), con l’introduzione della proprietà privata, il lavoro si è sottomesso ai servigi di questa, creando tanto più proprietà privata quanto più lavoro si produceva e così via, in una darwiniana e naturale selezione del capitale. Il capitale così estratto (sotto forma di proprietà privata) colonizza la coscienza dell’individuo, rendendola sottomessa alla proprietà privata. E l’individuo prepara la coscienza all’invasione del capitale.

Raffaele Vanacore

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