Marx e la servitù dell’alienazione


Dopo aver dimostrato come – a causa del fatto che “una gran parte della proprietà fondiaria cade nelle mani dei capitalisti e così i capitalisti diventano ad un tempo proprietari fondiari” – risultano solo due classi sociali, la classe dei lavoratori e la classe dei capitalisti, e dopo aver dedotto come “il salario ridotto al minimo deve essere ancora ulteriormente ridotto per sostenere la nuovo concorrenza”, fatto che “conduce poi necessariamente alla rivoluzione”, Marx – nel capitolo “Il lavoro estraniato” – delinea quella che è la condizione del lavoratore. L’economia politica (o la politica economica…), difatti, non ha altro fine se non quello di indagare la condizione sociale, e per questo individuale, dell’uomo. Ora, dato che la società si divide, in somma parte, in due categorie – quella dei proprietari capitalisti (in altre parole, di coloro che vivono senza necessità di lavoro) e quella dei lavoratori non proprietari (condizione oggi, in realtà, estendibile anche ai piccoli proprietari, in somma a coloro che necessitano di lavoro per vivere) – l’analisi del rapporto tra queste due categorie si impone come essenza dell’analisi sociale stessa. Orbene, constatato come la deriva monopolistica ed accaparratrice socio-politica degli ultimi decenni, ha condotto, senz’ormai alcun’ombra mistificatoria, ad una società siffatta, l’analisi marxiana risulta di decisiva importanza non solo per comprendere i suddetti rapporti sociali, ma anche per contrastare questa stessa deriva ed elaborare delle alternative economico-politiche.

Ecco dunque il punto: l’alienazione. Ma da dove nasce questo concetto? È forse questo un concetto di natura economica? O forse è questo un concetto individuale? Seguendo Feurbach (Tesi su Feurbach), Marx aveva scoperto come egli “risolve l’essenza religiosa in essenza individuale”: in altre parole, “gli uomini alienano il loro essere proiettandolo in un Dio immaginario, solo quando l’esistenza reale nella società classista proibisce lo sviluppo e la realizzazione della loro umanità” (Reale ed Antiseri; corsivo di chi scrive)In pratica, dal momento che l’alienazione religiosa è alienazione individuale, occorre modificare le condizioni sociali che creano l’alienazione individuale, sradicando di conseguenza l’alienazione religiosa.

Posto come obiettivo lo sviluppo e la realizzazione di ogni uomo, ne deriva, quindi, la necessità di modifica di quelle condizioni socio-economiche che creano l’alienazione individuale. Ed in larga parte tali condizioni si basano sul lavoro alienato. È in questo contesto che risulta estremamente chiaro come “la religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di situazioni in cui lo spirito è assente. Essa è l’oppio dei popoli”.

In sostanza, la società crea l’alienazione individuale attraverso il lavoro alienato e l’individuo trasla la propria alienazione individuale in alienazione religiosa, trovando conforto in un Dio ed in un aldilà gradevoli. Ma come la società crea il lavoro alienato?

In primis, “quanto più l’operaio si consuma nel lavoro, tanto più potente  diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si crea dinnanzi, tanto più povero diventa egli stesso, e tanto meno il suo mondo interiore gli appartiene”; in secundis, “quanto più l’operaio si appropria col proprio lavoro del mondo esterno, della natura sensibile, tanto più egli si priva dei mezzi di sussistenza”. Quindi, l’operaio, quando lavora, non solo crea prodotti di lavoro a lui estranei, ma si riduce anche come essenza fisica, in quanto riduce i mezzi di sussistenza: in pratica, il lavoro è “un mezzo per soddisfare bisogni estranei”.

Ed a questo punto  si chiarisce il rapporto tra alienazione religiosa e lavoro alienato: infatti, “come nella religione, l’attività propria della fantasia umana, del cervello umano e del cuore umano influisce sull’individuo indipendentemente dall’individuo, come un’attività estranea, divina o diabolica, così l’attività dell’operaio non è la propria attività. Essa appartiene ad un altro; è la perdita di sé”.

Difatti, considerando che la natura è il corpo inorganico dell’uomo, l’appropriazione – da parte dell’uomo – della natura, con la conseguente riduzione dei mezzi di sussistenza, ossia della natura stessa, esita in una riduzione dell’essenza stessa dell’uomo. In altre parole, seguendo l’emergente – e così influente – teoria darwiniana, Marx può affermare che “il lavoro fa della vita della specie un mezzo della vita individuale”: poiché la vita, infatti, appare come “mezzo di vita”, il lavoro alienato fa “della sua essenza soltanto un mezzo per la sua esistenza”.

In tal contesto ontologico-esistenziale un ruolo primario è giocato, in maniera decisiva, dalla coscienza: è questa, infatti, che, rendendo l’uomo consapevole della propria appartenenza alla specie, lo fa libero. Ed il lavoro libero è l’ “oggettivazione della vita dell’uomo come essere appartenente ad una specie”. Al contrario, il lavoro alienato, privando l’uomo dell’oggetto della sua produzione (ossia, come detto sopra, diminuendo di fatto la quantità di beni naturali disponibili per la sua sopravvivenza in quanto appartenente ad una specie), e quindi spogliandolo della sua coscienza di individuo, “gli strappa la sua vita di essere appartenente ad una specie”.

A questo punto, come l’individuo alienato religioso di Feurbach è un essere a-storico, così l’individuo alienato tramite il lavoro di Marx è un essere a-specifico, e per questo a-storico: la sua dimensione sociale si perde nell’alienazione eretta a sistema. La sua vita, ossia il suo vissuto interiore (inconscio, si sarebbe poi detto…), che è la sua verità, ossia la sua libertà, è sacrificata sull’altare della società, che esige l’alienazione come mezzo di perpetuazione della sua esistenza all’interno della società. E la coscienza individuale, sconfitta, si adegua: l’uomo non vive più la propria vita, ma alienato da se stesso, vive la vita della società. La sua coscienza è stata colonizzata da quella della società. Non c’è più biologia individuale, ma solo biologia sociale.

La differenza con l’alienazione religiosa di Feurbach è che l’uomo alienato di Marx – poiché “i miracoli divini divengono superflui a causa dei miracoli dell’industria” – non rinuncia al proprio godimento per un’esistenza nell’aldilà; egli, al contrario, rinuncia, per garantirsi la sopravvivenza, al godimento in questa vita per un altro uomo. Ed è questo stesso uomo che, appropriandosi del plusvalore, ossia del prodotto netto sottratto alla natura, e quindi agli altri uomini,  ed erigendosi a razionalità sociale, e cioè costruendosi come coscienza dell’individuo, vive il plusvalore di godimento sottratto agli altri uomini.

Il capitalista è padrone non solo del plusvalore, e quindi del reddito, ma anche del godimento, e quindi della vita stessa del lavoratore. E quanto più si impadronisce della vita del lavoratore, tanto più plasma la coscienza dell’individuo, il quale, in tal modo, non vive più la propria condizione come un’alienazione, ma – addirittura – come l’esistenza desiderabile. Al reale godimento biologico subentrano godimenti, pur altrettanto biologici, ma fasulli, che hanno il precipuo compito di maschera la condizione di asservimento della maggior parte degli uomini. Così come gli dei, per Feurbach, non sono la causa dell’alienazione religiosa, ma la conseguenza, così la proprietà privata è non già la causa del lavoro alienato, ma la conseguenza. La proprietà privata è il prodotto del lavoro alienato, la realizzazione di questa alienazione.

Il fine dell’alienazione sociale, attuata tramite il lavoro e manifestatasi tramite la proprietà privata, è la selezione naturale della specie umana: ma questa selezione è falsata, in-naturale. Chi ha la capacità di alienare gli altri, sfruttando il lavoro ed anche le loro conquiste scientifiche, si impossessa sempre più delle risorse, con il rischio non solo di avere una perdita netta di risorse, ma anche di sfociare nell’impossibilità della natura a soddisfare i bisogni della specie umana. Ecco che il socialismo marxiano è “scientifico”, lo è in quanto biologico.

Rifiutata ogni possibilità di aumento dei salari, in quanto essi stessi espressione della proprietà privata, il fine ultimo della società va posto nell’emancipazione della società dalla proprietà privata, in quanto “in questa emancipazione è contenuta l’emancipazione universale degli uomini”. Questa utopistica fine della selezione naturale della specie umana basata sulla proprietà privata è il fine del socialismo.

Raffaele Vanacore

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