I movimenti dei lavoratori e la mobilità del capitale


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Capitolo 2. I movimenti dei lavoratori e la mobilità del capitale

Il seguente capitolo si propone di analizzare le mobilitazioni operaie nell’ambito del settore fondamentale del capitalismo del ventesimo secolo, l’industria automobilistica. Dapprima viene delineato il modello spaziale e temporale dei conflitti operai di questo settore a livello mondiale, dal 1930 all’età contemporanea sulla base di indici desunti dall’elaborazione dei dati raccolti nel database WLG. Successivamente, si descrive il processo attraverso il quale si attua uno spostamento della militanza operaia in parallelo a successive fasi di ricollocazione del capitale. La produzione di massa dell’industria automobilistica determina contraddizioni sociali simili nei vari luoghi in cui essa si diffonde ed afferma. In seguito al verificarsi di questo fenomeno, si assiste all’attuazione di strategie specifiche da parte dei capitalisti mediante lo spostamento della produzione in zone caratterizzate da un minor costo del lavoro e da una manodopera più gestibile, provocando una duplice variazione strutturale: indebolimento dell’organizzazione operaia nelle zone di disinvestimento, rafforzamento della stessa nelle aree di nuova espansione. A tal proposito, David Harvey sostiene che lo spostamento della produzione costituisce una soluzione di tipo spaziale che, tuttavia, non risolve il problema in modo permanente (Harvey, 1989).

L’analisi si incentra sulle similitudini e sui legami tra le varie ondate di agitazioni operaie sorte nei punti strategici dell’espansione dell’industria automobilistica. Pur nella omogeneità e nella similarità dei processi verificatisi in diversi contesti industriali, tuttavia occorre isolare il caso del Giappone per la particolarità del suo sistema di produzione e per le conseguenze che da esso scaturiscono, in relazione alla quasi totale assenza di lotte operaie. Nello specifico, in Giappone, già prima del decollo dell’industria automobilistica, si assiste ad una forte mobilitazione operaia per far fronte alla quale, le aziende decidono di apportare significativi cambiamenti al modello fordista della produzione di massa. I produttori giapponesi di automobili creano dunque un sistema stratificato di subappalti, ai fini di garantire un alto livello occupazionale e di stringere un parrò di collaborazione con la forza lavoro, ottenendo flessibilità e costi contenuti. La strategia appena descritta ha consentito al Giappone di evitare le agitazioni operaie tipiche di altre parti del mondo e di adottare una serie di misure di mercato volte alla riduzione dei costi mediante la cosiddetta “produzione snella” (lean production).

Ritornando al contesto globale, occorre precisare che le trasformazioni della struttura produttiva susseguitesi nel corso degli anni non hanno avuto sempre e solo effetti negativi sul potere contrattuale dei lavoratori: in alcuni casi i metodi di produzione snella hanno aumentato la vulnerabilità del capitale rispetto alle interruzioni del flusso produttivo, incrementando il potere contrattuale aziendale degli operai. In un ambito più recente, le grandi aziende automobilistiche si sono impegnate per ottenere una cooperazione attiva da parte dei lavoratori ed un abbattimento dei costi di produzione. Tuttavia, tali strategie hanno creato una forte stratificazione della forza lavoro lungo la linea di demarcazione geografica tra centro e periferia ed in relazione alle differenze di genere. Al fine di sintetizzare le fasi caratteristiche del processo di determinazione dei modelli storico-mondiali di militanza operaia nell’industria automobilistica, risulta opportuno schematizzare i momenti salienti di questo fenomeno in relazione a tre contesti geografici specifici rappresentativi: Stati Uniti, Europa occidentale, Brasile.

In particolare, si verifica uno spostamento geografico-temporale dell’epicentro della militanza degli operai del settore automobilistico, dal Nord America negli anni trenta e quaranta, verso l’Europa occidentale e poi meridionale negli anni sessanta e settanta, per arrivare ai paesi di nuova industrializzazione negli anni ottanta e novanta. Queste ondate di contestazioni, pur essendosi attuate in contesti culturali, politici e storici estremamente diversi, presentano caratteristiche simili in relazione a determinati parametri: tutte hanno adottato forme non convenzionali di protesta, come le occupazioni, che paralizzavano la produzione di interi poli industriali; gli operai erano prevalentemente immigrati di prima o seconda generazione e potevano contare sul sostegno da parte delle comunità di appartenenza. Punti di contatto possono essere ravvisati anche nelle modalità di contenimento delle maggiori ondate di contestazione, nella misura in cui le vittorie operaie inducono ad attuare strategie manageriali dirette a indebolire strutturalmente il movimento dei lavoratori.

I numerosi tentativi finalizzati all’individuazione di una soluzione spaziale al problema del controllo della forza lavoro suggeriscono una specifica lettura analitica di queste ondate di mobilitazione: esse sono poste in relazione tra loro dai successivi spostamenti della produzione verso le aree di minor agitazione. Dunque, militanza operaia e mobilità del capitale possono essere considerati come parti integranti di un unico processo storico: il potere contrattuale dei lavoratori subisce un contenimento nei luoghi dai quali il capitale viene spostato, mentre si istituisce, fortificandosi, una nuova classe operaia nei luoghi di recente espansione industriale. Il percorso appena delineato si ripete con una certa similarità strutturale ed omogeneità di tratti caratteristici in un contesto globale più ampio a partire dagli anni trenta e quaranta negli Stati Uniti. Il 30 dicembre 1936 gli operai occuparono gli stabilimenti Fisher Body n.1 e n.2 della General Motors a Flint, nel Michigan. Il 12 marzo dell’anno seguente l’industria statunitense fu costretta a cedere firmando un contratto con la United Workers Auto. Questo evento segna l’inizio del processo di affermazione dei modelli storico-mondiali di militanza operaia nel settore produttivo automobilistico

L’elemento chiave che spiega il successo della UAW è collocabile nel potere contrattuale legato al luogo di lavoro, con la relativa capacità dei lavoratori di sfruttare la loro posizione nell’ambito del complesso modello di divisione del lavoro tipico della produzione di massa: attraverso pratiche di occupazione e di interruzione dell’attività lavorativa in specifici settori, infatti, è possibile paralizzare un’intera azienda. La strategia oppositoria di contenimento attuata dall’industria automobilistica nei riguardi delle mobilitazioni operaie si concretizza nello spostamento della produzione lontano dalle roccaforti del sindacato. A partire da questo episodio peculiare, si registrano altri simili avvenimenti che si sviluppano secondo le stesse modalità esposte, e che quindi, a buon diritto, possono essere ritenute costanti effettive del processo di formazione di movimenti operai in seguito all’affermarsi delle caratteristiche proprie della mobilità del capitale. Stesso discorso per l’Europa occidentale.

Durante il periodo compreso tra le due guerre mondiali, l’Europa occidentale, arretrata rispetto agli Stati Uniti nell’applicazione del modello fordista di produzione di massa nel settore automobilistico, presenta un sistema produttivo estremamente differente: l’industria europea era infatti caratterizzata dalla presenza di una molteplicità di piccole imprese impegnate nella produzione di auto “su ordinazione” (custom-manifacture), prive di quella forza coercitiva necessaria al raggiungimento di livelli di sviluppo simili rispetto alla ben più evoluta situazione statunitense. Data la limitata espansione del modello di produzione di massa, il potere contrattuale legato al luogo di lavoro degli operai europei era relativamente basso, mentre negli anni successivi alla prima guerra mondiale prevaleva il potere associativo. In questo periodo, infatti, si registra un aumento esponenziale dei movimenti operai e dei partiti di sinistra con il relativo guadagno di notevoli vittorie dal punto di vista elettorale e dei diritti dei lavoratori. A partire dagli anni cinquanta e sessanta, tuttavia, si assiste ad un processo di progressiva convergenza dei livelli del potere contrattuale legato al luogo di lavoro sulle due sponde dell’oceano Atlantico, in seguito allo spostamento del fulcro della crescita dell’industria automobilistica in Europa occidentale, come conseguenza delle forti mobilitazioni dei lavoratori statunitensi negli anni trenta e quaranta. Secondo Altshuler (1984), infatti, si può collocare la prima fase di espansione dell’industria automobilistica tra il 1910 ed il 1950 negli Stati Uniti, mentre la seconda si pone nell’Europa occidentale tra gli anni cinquanta e i sessanta (Altshuler, 1984).

La rapida diffusione del modello di produzione di massa determina il presentarsi di effetti contraddittori sulla forza lavoro europea, non molto diversi da quelli sperimentati in precedenza dai lavoratori statunitensi: si riduce il potere contrattuale dei lavoratori specializzati dotati di abilità artigianali in seguito all’affermarsi delle nuove modalità di produzione, da un lato; si costituisce una nuova classe operaia semispecializzata, composta da immigrati di recente proletarizzazione, a causa della trasformazione e dell’espansione del settore, dall’altro. Anche nel contesto europeo è possibile registrare un repentino mutamento della situazione: i lavoratori della nuova produzione di massa, a causa delle durissime condizioni di lavoro, come i loro omologhi negli anni trenta, sfruttando il potere contrattuale derivante dalla loro posizione all’interno del complesso sistema di divisione del lavoro, mettono in atto una serie di scioperi in punti e tempi strategici al fine di arrecare notevoli danni alle aziende automobilistiche.

Pur nella differenziazione tra area settentrionale e meridionale dell’Europa occidentale, dovuta all’andamento ben più esplosivo delle agitazioni degli operai nel Sud rispetto a quelle verificatesi al Nord, tuttavia i clamorosi successi dei movimenti operai provocano da parte dei costruttori di automobili una reazione analoga a quella attuata negli anni trenta e quaranta dalle aziende statunitensi: ci si affida dunque a misure risolutive già precedentemente sperimentate, come l’innovazione dei processi, la promozione di un sindacalismo responsabile e la ormai nota delocalizzazione della produzione. Quest’ultima strategia, adottata principalmente dalla Volkswagen con il trasferimento dei suoi investimenti in Messico ed in Brasile, sposta l’analisi in questione nel contesto geografico del Brasile, quale ulteriore ambito analitico dello studio sulla determinazione dei modelli storico-mondiali di militanza operaia nell’industria automobilistica. In particolare, gli anni del “miracolo economico” brasiliano, tra il 1968 e il 1974, corrispondono al periodo in cui il capitalismo del Primo Mondo era alla ricerca di un nuovo territorio nel investire. L’industria automobilistica brasiliana viene investita da un aumento esponenziale della produzione a partire dagli anni settanta: la rapida espansione del settore produttivo determina il costruirsi di una nuova classe operaia, in termini di esperienza e di numero. I lavoratori si trovano dunque in una posizione strategica all’interno del complesso sistema di divisione del lavoro, proprio come i colleghi statunitensi ed europei, e, rispetto a questi, sono strategicamente posizionati anche nel settore chiave delle attrezzature per i trasporti. Gli scioperi e la mobilitazione operaia assumono in questo contesto un valore potenziale ben più determinante rispetto alle situazioni precedentemente analizzate, potendo avere effetti non solo sui profitti del settore in questione, ma anche sulla capacità del governo brasiliano di provvedere al pagamento del suo consistente debito estero.

Alla fine degli anni settanta, scuotendo i lavoratori da quasi quindici anni di torpore, si affaccia sulla scena brasiliana un nuovo movimento sindacale. A partire dal 1978, si assiste ad una forte ondata di scioperi, in seguito al rifiuto da parte degli operai dello stabilimento Saab-Scania di São Bernardo di mettere in funzione i macchinari: tale fenomeno dà ufficialmente avvio ad una serie di episodi simili nelle fabbriche della Mercedes, della Ford, della Volkswagen e della Chrysler, fino ad interessare tutte le principali industrie automobilistiche brasiliane. Risulta più che evidente il parallelo, in termini di caratteristiche e modalità attuative, con le forme di protesta attuate negli Stati Uniti degli anni trenta e nell’Europa occidentale degli anni sessanta. Anche in questo caso i lavoratori riescono ad ottenere un incremento sostanziale dei salari ed il riconoscimento di nuovi sindacati indipendenti. Nonostante i numerosi tentativi di contenimento delle rivolte e di eliminazione dei sindacati nelle fabbriche da parte delle multinazionali del settore automobilistico, queste, costrette all’accettazione degli effetti delle mobilitazioni a partire dal 1982, vedono tuttavia affermarsi una nuova classe di operai consapevole dei propri diritti lavorativi.

Appare infine rilevante il fatto che il movimento operaio, nonostante le innumerevoli strategie oppositorie operate al riguardo, non sia riuscito ad ottenere le dovute garanzie relative alla sicurezza del posto di lavoro. Ad attirare l’attenzione degli investimenti delle multinazionali è, oltre il Brasile, anche il Sudafrica: qui si forma un vasto proletariato urbano nero, concentrato nelle mansioni semiqualificate delle industrie di produzione di massa. Il processo storico che si attua in questo ulteriore contesto geografico appare estremamente simile a quello sviluppatosi nei continenti precedentemente sottoposti ad analisi: costituitosi un movimento attivo di lavoratori, si assiste ad un’ondata di militanza operaia tra il 1970 e i primi anni ottanta, a partire da una serie di scioperi del 1973 concentrati nelle fabbriche di Durban, con la relativa acquisizione di legittimità da parte dei sindacati neri nel 1979. Il fallimento delle politiche repressive volte a mantenere il controllo sui lavoratori induce il capitale internazionale ad abbandonare l’industria automobilistica sudafricana, e a dirigersi, ancora una volta, verso un territorio caratterizzato da un basso grado di mobilitazioni operaie. Lo scenario d’applicazione del modello fordista di produzione di massa si sposta nel contesto della Corea del Sud, il cui governo si rivolge proprio al settore automobilistico al fine di attuare politiche di sviluppo del paese. Il caso coreano si pone in leggero contrasto rispetto a quello statunitense, a quello europeo, a quello brasiliano ed a quello africano, per il fatto che, inizialmente, il regime autoritario vigente bandisce sindacati autonomi e scioperi, contribuendo a mantenere bassi i salari e tiranniche le condizioni di lavoro, con il conseguente aumento esponenziale dei tassi produttivi.

Tuttavia, a partire dal 1987, un’ondata di mobilitazioni inizia a travolgere il paese, consentendo ai rivoltosi di ottenere rapide vittorie significative. Ai tentativi di repressione, si risponde con ulteriori forme di protesta che conducono ad un peggioramento di altri problemi strutturali (Rodgers, 1996). Un pieno riconoscimento della legittimazione dei movimenti e dei sindacati sudcoreani si ha nel 1997. In sintesi, si può affermare che le multinazionali del settore automobilistico abbiano inseguito l’improbabile obiettivo di un lavoro “docile” e a basso costo in ogni angolo del mondo, per poi rendersi conto della sconcertante similarità delle dinamiche di militanza dei movimenti operai: la strategia della delocalizzazione non ha fatto altro che trasferire le contraddizioni da un luogo di produzione all’altro, non risolvendo affatto i problemi di redditività e di controllo della forza lavoro. In quest’ottica, le tendenze più recenti osservabili nel contesto storico contemporaneo possono essere interpretate come inizio di un nuovo ciclo di delocalizzazione e di militanza: la Cina ed il Messico, nelle parole dell’autrice, costituiscono i nuovi siti adatti ad una rapida espansione e caratterizzati da bassi salari, dove, presumibilmente, potrebbe emergere un movimento operaio forte ed indipendente nell’industria automobilistica, appunto, cinese e messicana.

A questo punto, risulta necessario esplorare un altra caratteristica strutturale propria del settore industriale automobilistico legata alla strategie attuate dalle multinazionali in concomitanza con il progressivo affermarsi dei movimenti di militanza operaia. Accertata la sostanziale inconsistenza dell’applicazione della soluzione decolonizzante ai problemi di redditività e controllo della forza lavoro, si manifesta la minaccia competitiva rappresentata negli anni ottanta dal grande successo dei marchi giapponesi, che spinge i costruttori statunitensi e quelli dell’Europa occidentale ad implementare un piano di innovazione tecnologica come possibile soluzione dei loro problemi, emulando selettivamente i processi produttivi caratterizzanti il settore automobilistico giapponese. In seguito all’affermarsi di questa strategia, si assiste ad una progressiva diffusione e ad una sempre più convinta adozione di regole di lavoro flessibile e forme di consegna just in time, nonché del lavoro di team e dei cicli di qualità, con il conseguente abbandono dell’integrazione verticale a favore dell’outsourcing, uso estensivo di risorse subappaltate ad aziende esterne.

La sostanziale differenza che intercorre tra il modello originale giapponese e quello adottato dalle multinazionali nordamericane ed europee è ravvisabile nella mancanza, da parte di queste ultime, dell’offerta alla forza lavoro, impegnata nei settori strategici della produzione, della garanzia di un lavoro sicuro: l’imitazione, dunque, è circoscritta alle misure tipiche della produzione snella giapponese, non estendendosi alle politiche del lavoro ad esse correlate. Il modello che ne scaturisce può essere definito come lean and mean (“snello e miserabile”) (Harrison, 1997), mentre quello “toyotista” originario, offrendo sicurezza in cambio di cooperazione, si configura come lean and dual (“snello e duale”). La differenza tra i due modelli è cruciale per comprendere le dinamiche delle agitazioni operaie contemporanee nel settore dell’industria automobilistica. Infatti, in molti dei vari siti di espansione della stessa, le politiche di impiego mantengono le medesime caratteristiche del passato, determinando il perdurare del modello lean and mean e delle dinamiche di costituzione di nuovi movimenti operai ad esso collegato.

Pur nella sua generale validità, tuttavia, il modello della produzione snella, nelle forme in cui esso è stato prevalentemente sfruttato, presenta dei limiti attuativi legati all’incapacità di adottare contestuali politiche d’impiego atte a favorire la cooperazione attiva tra lavoratori. In definitiva, tali strategie non si sono limitate alla ricollocazione del capitale industriale o alla riorganizzazione delle linee di produzione esistenti: il capitale, nella costante ricerca di maggiori rendimenti e di un più saldo controllo, si è esteso in nuovi settori ed in nuove tipologie di prodotti. Gli spostamenti geografici della conflittualità non sono più circoscritti in uno specifico settore industriale, ma si configurano come intersettoriali di lungo periodo nella localizzazione del conflitto tra capitale e lavoro. Dunque, il conflitto operaio si lega inscindibilmente alla soluzione basata sulla riorganizzazione del prodotto (product fix) quale ulteriore variabile da considerare nell’analisi del fenomeno in questione.

Augusto Cocorullo – Università degli Studi di Napoli “Federico II” – Dipartimento di Scienze Sociali – Dottorato di Ricerca in Scienze Sociali e Statistiche – XXIX ciclo
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