Cosa fare?


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Il diradarsi del profilo politico italiano, ormai intrecciato a quello europeo,consente una chiara definizione dello stesso: da un lato, infatti, sembrano cristallizzarsi quelle forme monostatiche – e quasi indistinguibili – di “governi delle larghe intese”. Essi, in altre parole, rispecchiano nient’altro che vecchie forme partitiche – per non dire vecchi centri di potere – non più in grado, per il loro stesso fallimento, di assicurarsi da sole il potere. Ecco che allora necessitano l’una dell’altra per alimentare il proprio potere, spesso così ben radicato nei più profondi, quanto nei più superficiali, gangli istituzionali dei vari Paesi. Il collante di queste proposte, differenti spesso solo per il colore dei simboli, in quanto esse stesse vittime di un’osmosi incontrastabile, per sua natura liquida, non è nient’altro se non l’ideologia economica, che – in conseguenza dello sradicamento della cultura come forma politica – si è radicata, ipso facto, come fondamento di ogni politica. La divisione politica non è più culturale, è economica. Questo concetto può non sembrare nuovo – di certo è di matrice marxista – ma si rivela di assoluta rilevanza se posto in relazione con l’evidenza che partiti, pur culturalmente diversi, sono ormai economicamente armonizzati. È per tale motivo, dunque, che la battaglia politica futura si svolgerà su basi economiche.

Difatti, se da un lato – come visto – l’orizzonte politico è occupato da questo monolitico, ma fluido, blocco autocratico, dall’altro lato si levano all’orizzonte nuove forme di nazionalismi egoistici e di razzismi xeno-omofobi. Essi sfruttano – come già Altiero Spinelli ricordava nella sezione del Manifesto dedicata alla formazione degli Stati Uniti d’Europa – “le tendenze atavistiche latenti nell’animo umano” e lo Spinelli scopriva, con lucida lungimiranza e franchezza, che questo “è in realtà un docile strumento in mano alle ristrette caste veramente dominanti ed è adoperato per sottomettere altri popoli” (ibidem). Ora, svelata la natura viziata – perché cognitivamente fondata e socialmente sfruttata – dei nuovi razzismi, ricordato che i fascismi nacquero come risposta di queste classi dominanti all’avanzare delle rivendicazioni socialiste (), posto a fondamento dell’azione politica sincera la creazione – in senso francofortese – di una “società senza sfruttamento”, si impone l’esigenza di una politica altresì fondata. L’evidenza che tanto il monocratico blocco delle “larghe intese” quanto i nuovi razzismi sono “in mano alle ristrette caste veramente dominanti” e che – per compiacere i loro interessi – praticano una politica economica di stampo schiettamente neoliberista, il cui unico scopo è quello di una ridistribuzione bottom-up della ricchezza ed il cui unico risultato – non imprevedibile – è stato la creazione di una società estremamente diseguale, suggerisce – in un’ottica di scontro economico, come delineato all’inizio – la genesi di un movimento con nuove basi economiche.

A fondamento di questa sfida politica all’economia neoliberista andrebbe posta una seria ricerca socio-economica che crei le fondamenta per un nuovo tipo di società. Ad esempio, sia la vecchia concezione keynesiana di fondi statali all’economia per stimolare la crescita – per la constatazione che gran parte di questi fondi finiscono in mano a capitali monopolistici con gli unici risultati di arricchire questi ultimi e di aumentare il debito pubblico – sia la concezione della tassazione come redistribuzione della ricchezza – per il medesimo fatto: i soldi delle tasse vanno a finanziare spesso abili gruppi finanziari (vedi) – impongono la ricerca di strade alternative per lo sviluppo e per la creazione di lavoro. Ad esempio, è possibile riconoscere perché il debito pubblico è aumentato, svelando i colpevoli e liberando così i singoli Paesi dall’obbligo di ripagare i debiti così contratti? Ancora, perché non parlare – oltre che di riduzione del debito – di aumento del Prodotto Interno Lordo, investendo nelle tecnologie e nel capitale umano? Questi, certo, sono solo modesti e banali esempi, ma devono servire per chiarire le vie da percorrere.

Per riuscire a sviluppare al massimo questa ricerca socio-economica occorre che tale movimento sia profondamente radicato nelle università, non solo in quelle economiche (che, tuttavia, sono largamente dominate da una cultura neoliberista, in massima parte espressione della Scuola di Chicago), ma anche, e soprattutto, in quelle di scienze sociali (vedi). In poche parole, la cultura in senso lato, la ricerca sociale insomma (vedi), dovrebbe essere il presupposto della formazione di questo movimento (come è avvenuto in Spagna con il movimento Podemos, per intenderci).

Un movimento così formato, poste queste basi economiche e la ricerca socio-economica come suo fondamento, dovrebbe poi dispiegarsi nella società. A questo punto – per affrontare il problema di primaria importanza, ossia la creazione del consenso – viene sicuramente in aiuto la tecnologia. Così come Roosevelt riuscì a creare un consenso – nonostante gli attacchi anche personali a lui e Keynes – potendo poi applicare quel New Deal che fece risollevare gli americani dalla devastante crisi del ’29, “entrando nelle case” grazie alla radio, ecco che, per applicare questo New Deal europeo, bisogna “entrare nelle case” degli italiani per spiegar loro le vere cause della crisi e far conoscere le proposte socio-economiche.

In tal modo – ed in associazione, ovviamente, alle più classiche forme di partecipazione politica quali il volontariato, le assemblee ecc. – si potrà creare una nuovo comunità, nel vero senso di pensieri ed idee comuni, che consentano all’Italia ed all’Europa di risollevarsi da queste situazione di sfruttamento.

Raffaele Vanacore
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