Heidegger, ovvero l’angoscia del nostro tempo di Raffaele Vanacore


Per comprendere il significato dell’angoscia nel sistema filosofico di Heidegger, e quindi nel nostro tempo, occorre una breve introduzione alla filosofia esistenzialista del filosofo di Friburgo. Heidegger si pone il problema della realtà, che non è altro se non il problema del “senso dell’essere”; tuttavia, l’essere non può darsi se non come rapporto all’ente stesso che cerca l’essere, ossia all’uomo. Quest’ente, che si pone dunque domande sull’essere, è l’esserci (Dasein): è questo ci che rende oggettivo l’essere e “la natura dell’esserci consiste nella sua esistenza”. Ma qual è l’essenza dell’esserci? In altre parole, cos’è che rende peculiare l’esserci? L’essenza dell’esserci, che può così trascendere l’oggettività del ci, è la possibilità, ossia il poter-essere. Il poter-esser, che è dunque l’essenza dell’esserci, si caratterizza per la progettualità ed il poter progettare implica l’essere-nel-mondo. Tuttavia, l’unica possibilità certa, ossia l’unica certezza in un mondo fatto di potenzialità, è la morte, che può definirsi come “la possibilità che tutte le altre possibilità divengano impossibili”. In sostanza, l’esistenza autentica è essere-per-la-morte: infatti, “in quanto poter-essere, l’esserci non può oltrepassare la possibilità della morte. La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata ed insuperabile”. In questo quadro, la morte rivela come il senso dell’essere sia il suo nulla, e poiché la disposizione caratteristica di chi affronta il nulla è l’angoscia,  l’esserci, che è in ultima analisi essere-per-la-morte, è essenzialmente angoscia: con l’angoscia, infatti, “l’esserci si trova innanzi al nulla della possibile impossibilità della propria esistenza”.

A questo punto, a fronte ossia di una condizione di fondo di angoscia dell’esserci, ossia dell’uomo in quanto tale, si pongono due vie: la prima è la via di chi “non ha il coraggio dell’angoscia davanti alla morte” e si cimenta, pertanto, nelle più banali – ed oggettuali – attività quotidiane; la seconda, invece, è la via di chi riconosce la propria condizione e vive di conseguenza. Nella prima via, l’angoscia si fa immanente e si degrada a paura, che non è altro, infatti, se non “un’angoscia decaduta a livello del mondo, non autentica, e nascosta a se stessa come angoscia”. Nella seconda via, l’angoscia rimane trascendente e consente, all’individuo autentico, di comprendere la sua reale natura e di progettare “l’apertura dell’esserci al suo esistere come esser-gettato per la propria fine”.

L’angoscia per Heidegger è dunque la caratteristica essenziale dell’uomo libero: l’uomo non libero – non autentico – reprime la propria volontà di esserci, che in ultima analisi è appunto volontà di esser-per-la-morte, e quindi di angoscia, con la necessità dei bisogni, primari quanto secondari (ossia creati dalla società). Sono i bisogni a sopprimere la libertà, e quindi l’angoscia. L’uomo libero, colui che progetta una vita autentica, arrivato in fondo al sentiero dell’essere, che altro non è se non il più profondo dei suoi abissi mentali, scopre che lo scopo della vita è la morte. La morte si pone, dunque, come momento ultimo ed essenziale dell’essere: l’uomo libero scopre che è già morto. La sua angoscia risulta una insaziabile volontà di vita. Secondo questa concezione risulta chiara l’abusata affermazione marxiana secondo cui “la religione è l’oppio dei popoli”: la religione, infatti, promettendo un aldilà, si frammette alla vera essenza dell’esserci, ossia la morte, anestetizzando così l’intelletto umano e privando, in tal modo, l’uomo della sua stessa libertà.

Se si considera, poi, come nel mondo moderno, caratterizzato in larga parte da quella libertà di fondo da costrizioni esterne, che – secondo Bauman – è la caratteristica del mondo moderno e che determina la “liquidità” della condizione dell’uomo moderno e se si considera, inoltre, che questa libertà – sempre secondo Bauman – è la base dell’ansia, disturbo nevrotico che si manifesta nel mondo moderno, piuttosto che con una sintomatologia somatica, con una sintomatologia psicologica, risulta evidente come l’ansia sia anch’essa una immanentizzazione moderna dell’angoscia. Ricordando poi che per Heidegger la paura è sempre di qualcosa, mentre l’angoscia è del nulla, appare evidente come l’ansia sia il sintomo di un’angoscia che si fa paura del mondo moderno. Tuttavia, cos’è che rende l’ansia tipica del mondo moderno? A questo punto diventano fondamentali le analisi psichiatriche transculturali e trans-sociali: Julian Leff, pioniere degli studi psichiatrici etnologici comparativi, ha ben rilevato che “con il progressivo aumento, nella cultura occidentale, dell’attenzione posta sugli stati affettivi soggettivi in quanto indicatori di uno stato di angoscia, i pazienti hanno progressivamente modificato il proprio modo di esprimere malessere, passando dalle esperienze fisiche dell’isteria a quelle psicologiche dell’ansia e della depressione”. Quindi, ritornando a quando si ricordava che “i bisogni sopprimono l’angoscia”, risulta chiaro che nello stato del bisogno l’angoscia può solo difficilmente esprimersi ed al più si manifesta come malessere somatico. Al contrario, negli stati occidentali, dove l’angoscia può più liberamente esprimersi in maniera psicologica essa si fa “disturbo psichico”, ossia ansia o depressione. Tuttavia se, come detto sopra, l’angoscia è sempre del nulla, mentre l’ansia è in larga parte paura del mondo moderno, qual è il posto dell’angoscia nel mondo moderno? L’angoscia, lungi dal dover essere presupposto psicopatologico per un disturbo psichiatrico, deve invece porsi come condizione essenziale di una vita autentica, che, consapevole del proprio fine (e della propria fine..), ricerca la verità delle cose e rende l’uomo libero.

 
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